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Le ultime quattro uscite di Juliana Hatfield sono state due buoni album di brani originali (“Pussycat” e “Weird” ) e un paio di interessanti raccolte di cover (“Juliana Hatfield Sings Olivia Newton-John” discreto e “Juliana Hatfield Sings The Police” appena sufficiente).
Per forza di cose “Blood”, il diciannovesimo della discografia della cantante di stanza nel Massachusetts, è stato registrato in solitaria nella casa della cantante assistita a distanza dal Cunnecticut da Jed Davis. Di fatto Juliana ha composto e arrangiato e suonato tutti gli strumenti in solitaria a parte qualche effetto messo in post-produzione dall’altro fidato collaboratore: James Bridges.
Il ritorno a brani autografi ci restituisce una Juliana Hatfield più autentica, entrando in modo deciso nella psicologia e nel comportamento umano cercando di guardarlo a fondo, anche in modo molto grezzo.
Dopo queste premesse ci si aspetterebbe un disco di folk crepuscolare e invece ci si ritrova ad ascoltare un album accattivante e a tratti molto movimentato e tutt’altro che sottotono. Ma vediamo con ordine.
Il primo singolo, “Mouthful of Blood”, che poi risulta l’ottava traccia dell’album, è grintoso e abrasivo ma allo stesso tempo piacevole e melodico. Questa caratteristica è presente in tutto “Blood”.
Anche la ruvida “The Shame of Love” riesce a farsi ricordare come la meno rock “Gordon” o in “Nightmary” dove Juliana canta: “I’m living in a nightmare and I can’t wake up / The whole world is controlled by fascist, bloodsucking thugs” aggiornandoci sullo stato del mondo usando però un giro melodico al limite del grunge.
Il lato più emotivo esce in “Splinter” brano che parla di perdite e vulnerabilità senza rinnegare la polemica verso il capitalismo e la politica colpevole di aver rovinato buona parte degli Stati Uniti.
Ancora più abrasiva è “Chunks” che, accompagnata da un funk nervoso, la cantante sottolinea con delle parole violente: “Someone’s gonna take your hand / And break every finger / Shove a tube sock in your mouth / To stop the sound from coming out”.
Si arriva al culmine con “Torture”, una canzone musicalmente molto semplice che si sofferma sugli aspetti psicologici della tortura più che a quelli fisici, decisamente un modo di concludere il lavoro.
Il ritorno in studio (si fa per dire) ha sicuramente fatto trovare alla cantante quel piglio che, soprattutto dopo l’album, di cover dei Police, sembrava perso, certo le vette di “Only Everything” sono lontane, com’è giusto ma come ha dichiarato in un’intervista ad una radio la cantante ha detto “Mi piace sempre inventare melodie e poi cercare di adattarle alle parole: è come fare un puzzle e trovo sempre dove usare i flauti e i Mellotron, in ogni album: sono un bel contrappunto al contenuto lirico.”
E su questo non possiamo che darle ragione e augurarci che riesca a trovare ancora una volta un modo per sorprendere.
70/100
(Raffaele Concollato)