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ATTENZIONE: NON SI ATTRAVERSA CON IL ROSSO
Immaginate di compiere un salto indietro nel tempo e di ritrovarvi come per magia in quel di Tokyo nel giugno del 2018 per attraversare il celeberrimo incrocio di Shibuya, un carrefour di quattro strade e dieci corsie che vede muoversi – nel caos ordinato tipico del paese del Sol Levante – circa due milioni di persone al giorno. Fate ancora un piccolo sforzo con l’immaginazione e, mentre vi perdete nelle luci al neon delle più prestigiose etichette al mondo, alzate lo sguardo: tra una campagna pubblicitaria di Gucci e una di Dior potrete scorgere decine e decine di cartelloni raffiguranti Hanamichi Sakuragi e compagni, pronti a ricordarvi l’uscita della Restyled Edition di Slam Dunk, l’ennesima riedizione di uno degli spokon più importanti al mondo.
Ora però allungate il passo perché, come spesso vi ricorderà il manga, “non si attraversa con il rosso”.
TAKEHIKO INOUE: MR. BASEBALL
Slam Dunk, manga che ha visto la luce quasi trent’anni fa nonché uno dei titoli sportivi più influenti della storia del media, mietitore di successi con centinaia di milioni di copie vendute in giro per il mondo, ha però rischiato di non vedere mai la luce se non fosse stato per la grande lungimiranza del suo autore, Takehiko Inoue.
Inoue, classe 1967, nasce a Ōkuchi, una cittadina giapponese della prefettura di Kagoshima che lascia pochi anni dopo quando, dopo il divorzio dei genitori, si trasferisce a Kamoshida per vivere con la mamma e il nonno materno. È proprio l’incontro con quest’ultimo a far scattare nel giovane Takehiko la scintilla con quello che dapprima è un semplice passatempo, ma che in seguito diventerà la sua professione: il manga.
Masakichi, questo il nome del nonno, portava a casa una grande varietà di fumetti ma quello che più colpiva l’attenzione del nipote era Dokaben di Shinji Mizushima – uno spokon ambientato nel mondo del baseball liceale – catturandolo a un livello tale da pensare tra sé e sé, quasi fosse una promessa irrealizzabile tipica di un bambino, che un giorno sarebbe riuscito a scrivere un manga sportivo ancora migliore di quello che era diventato il suo preferito, spingendolo a riempire fogli e fogli di disegni.
Il momento tanto sognato arriva quando, dopo aver trascorso gli anni del liceo giocando – a detta dello stesso autore con scarsissimo successo – a basket e a farsi inviare dagli Stati Uniti copie su copie di Sports Illustrated, rivista considerata uno dei punti di riferimento dell’editoria sportiva mondiale, i suoi primissimi lavori vengono adocchiati da Shueisha; la casa editrice, intravedendo il potenziale del giovane, lo affianca a Tsukasa Hojo, celeberrimo autore di capisaldi quali City Hunter e Occhi di gatto, dal quale Inoue erediterà una padronanza dei tempi comici pressappoco perfetta, una brillantezza nei dialoghi encomiabile oltre che l’abilità di rendere immediatamente unici e riconoscibili anche i comprimari, dando loro uno spessore narrativo pari a quello dei protagonisti.
Il one-shot Kaede Purple, storia breve considerabile a tutti gli effetti come un proto-Slam Dunk date le similitudini di situazioni e di personaggi con protagonisti due giocatori di basket – Akagi e Rukawa, proprio come i due dello Shohoku – , gli vale la vittoria dell’ambito Tezuka Award oltre che la possibilità di iniziare a serializzare un suo manga sulle pagine di Weekly Shonen Jump (la testata settimanale ammiraglia di Shueisha). Pur essendo, soprattutto nel disegno, rozza e grossolana, questa “opera prima” lasciava intuire un futuro roseo per il giovane mangaka.
Nonostante il primo pensiero sia ovviamente uno spokon incentrato sulla pallacanestro, Inoue è però costretto a scontarsi prima ancora di prendere la matita in mano contro due scogli all’apparenza insormontabili: il primo è il target di Jump in quel periodo, ovvero i “battle” shonen, più nello specifico dei veri e propri pesi massimi della categoria quali Saint Seiya, Le bizzarre avventure di JoJo, Hokuto no Ken e Dragonball Z; il secondo e forse ancora peggiore ostacolo è rappresentato dalla scarsissima popolarità del basket in Giappone.
Considerata una disciplina sportiva minore ancora oggi, e a maggior ragione a inizio anni ’90 a fronte di una minor diffusione, la palla a spicchi ha da sempre subito l’esplosione di popolarità senza pari del baseball – questo spiega anche il perché tantissimi manga sportivi siano ambientati sul diamante, dal sopraccitato Dokaben a Tommy la stella dei Giants di Ikki Kajiwara passando per Touch di Mitsuru Adachi – e l’unico altro tentativo di trasposizione su carta stampata, Gigi la trottola, era uno shonen più interessato al lato comedy/demenziale che a quello agonistico.
L’interesse di Shueisha di percorrere una strada tanto nuova quanto rischiosa era quindi ai minimi storici, ma Inoue, conscio che il momento di raccontare la storia che ha da sempre in mente sarebbe inevitabilmente arrivato, inizialmente temporeggia con grande abilità e lungimiranza: Slam Dunk fa il suo esordio sulle pagine di WSJ nel 1990 e per i primi due anni di pubblicazione è tutto fuorché uno spokon. I lettori si ritrovano tra le mani un gag-manga sulla falsariga Due come noi o Shonan junai gumi, condito con una sottile – almeno nelle prime fasi – critica all’inadeguatezza del sistema scolastico nipponico nel quale a pallacanestro è soltanto un elemento di sottofondo a presunti triangoli amorosi e botte da orbi tra i banchi.
Questa sorta di doppia anima del manga è riassunta perfettamente nell’immagine di copertina del primo tankōbon dove Hanamichi Sakuragi sotto il gakuran, la classica uniforme scolastica maschile, indossa la divisa dello Shohoku.
Il momento della svolta è rappresentato dall’estate del 1992 quando, dopo 10 volumi con soltanto una partita di allenamento, utile più per insegnare i fondamentali del basket al lettore che per lo svolgimento della storia, iniziano i mesi che segnano il punto di non ritorno per la pallacanestro a livello mondiale e, di conseguenza, anche per Slam Dunk: l’estate dei giochi olimipici di Barcellona e del “Dream Team” statunitense.
TELL THE WORLD THAT I’M COMING
In quell’anno, le deludenti uscite della nazionale americana di basket non furono, per usare un eufemismo, entusiasmanti e la batosta subita a Seul per mano dell’URSS – sconfitta con la S maiuscola anche e soprattutto per motivi che vanno al di là della rivalità sportiva – “costrinsero” la FIBA a modificare la modalità di selezione degli atleti, fino ad allora provenienti prevalentemente dai college, aprendo le porte anche ai campioni dell’NBA.
Oggi, calcisticamente parlando, trovarsi di fronte ad una squadra in grado di schierare contemporaneamente campioni del calibro di Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar e Mbappè sarebbe il sogno di ogni appassionato ed è proprio questo lo scenario che si trovarono davanti agli occhi i supporters a stelle e strisce quando videro calcare il parquet ad un quintetto composto tra gli altri da Magic Johnson, Larry Bird, Scottie Pippen e Micheal Jordan. Proprio le peripezie di quest’ultimo, destinato a diventare più famoso dello sport da lui praticato, insieme alle prestazioni dominanti di quella che è stata decretata essere la nazionale sportiva più forte di ogni tempo, contribuirono a un boom di popolarità della pallacanestro senza precedenti, la cui eco giunse irrimediabilmente anche in Giappone. E anche negli uffici di Shueisha, ovviamente, dove non sembrò vero l’avere già in pubblicazione un manga dedicato proprio al fenomeno del momento.
Inoue può quindi liberarsi dal giogo allegorico che aveva trascinato fino a quel momento e iniziare a raccontare quel che ha sempre voluto, intraprendendo il percorso che lo porterà a mantenere la promessa fatta a sé stesso molti anni prima. Volendo individuare, anche metaforicamente, il momento che fa da spartiacque tra questi due spiriti del manga, lo si può ritrovare nel taglio di capelli del suo protagonista, che rappresenta un taglio con il passato anche per lo stesso autore.
“髪は本当に生きているように見えます”ovvero “i capelli che disegni sembrano vivi” è la frase che nonno Masakichi usava ripetere al giovanissimo Takehiko per complimentarsi per i suoi disegni e nonostante lo stesso Inoue giustifichi con un siparietto all’interno del manga il cambio di look di Hanamichi (“Così è più semplice da disegnare”), sapendo del rapporto che lo ha sempre legato al nonno materno – a tutti gli effetti un padre putativo – è quasi impossibile non leggere tra le righe il voler prendere una nuova strada.
DO YOU LIKE… BASKETBALL?
A seguito del successo riscosso da Slam Dunk, Inoue non ha più fatto mistero che questo era nato fondamentalmente come mero pretesto per disegnare delle belle partite di basket, ma lo sport è fatto di un’epica che necessariamente si nutre delle storie dei suoi protagonisti e se questi non hanno un background interessante e delle motivazioni a spronarli allora è difficile che le loro gesta in campo possano coinvolgere, a livello emotivo, uno spettatore/lettore. Cosa sarebbe stato delle sfide tra i Chicago Bulls e i Detroit Pistons (che andò di scena proprio a cavallo degli anni ‘80 e ‘90) se non ci fosse stata la rivalità dentro e fuori dal campo tra Michael Jordan e Isiah Thomas a renderle memorabili? Non è un caso dunque che per i suoi protagonisti Inoue si sia ispirato proprio alle star della NBA: Hanamichi è modellato su Rodman, Akagi richiama nell’aspetto Patrick Ewing (centro come lui), Rukawa invece ricorda per stile di gioco e outfit il grande Michael Jordan, Mitsui e la sua abilità nei tiri da 3 sono invece un chiaro omaggio a Craig Hodges – anche lui nr. 14 –, mentre Miyagi vista la bassa statura compensata da un’incredibile agilità è indubbiamente Muggsy Bogues. Ma questo vale per molti personaggi del manga che sono modellati sulla figura di giocatori esistenti non tanto per la comodità di avere photo reference sempre a disposizione quanto piuttosto per una dimostrazione di amore incondizionato da parte di Inoue per il basket e i suoi campioni.
È proprio questa ricerca di realismo nella messa in scena delle partite e nel tratteggiare le azioni di gioco a rappresentare un elemento di discontinuità con gran parte della produzione in ambito spokon: è vero, parliamo di ragazzi del liceo che giocano come professionisti della NBA, ma nelle pagine di Slam Dunk non c’è mai nulla che sfida le leggi della fisica. Gli intermezzi comici e il ricorso al deformed non mancano certo, ma non sono mai posizionati a disturbare i momenti chiave. Ogni giocatore è poi contraddistinto da determinate abilità che trovano giustificazione anche nella caratterizzazione fisica: Akagi (il “gorilla”) è un autentico armadio e svolge il ruolo di centro, Hanamichi alto e agile è – per autoproclamazione – il “re del rimbalzo”, Myiagi il più piccolo è il playmaker, e così via. Dimenticatevi Gigi la Trottola e le sue imprese da sospensione dell’incredulità, dimenticatevi dei palloni che diventano ovali per la violenza dei colpi, l’attenzione di Inoue alle pose il più possibile naturali dei giocatori è infatti maniacale tanto durante l’azione, quando tramite smorfie, gocce di sudore e muscoli tesi trasmette la concitazione e il pathos delle fasi di gioco, quanto nei momenti più distesi quando ai suoi personaggi, con indosso le divise prive di tasche, fa mettere le mani direttamente dentro gli shorts. Un’attenzione al dettaglio all’apparenza insignificante che però è testimonianza di come il basket Inoue lo abbia praticato prima ancora che raccontato.
GIOVANI PROTAGONISTI
È magistrale la capacità del mangaka di dare risalto anche agli avversari dello Shohoku mettendo in campo il loro passato, le loro debolezze e motivazioni al punto che gli incontri vedono contrapporsi, più che le squadre come collettivo, gli stessi protagonisti con i pari ruolo della squadra rivale, spesso e volutamente rappresentati come loro immagini speculari. La crescita personale, prima ancora che sportiva, dei personaggi di Slam Dunk è dunque il risultato di una conoscenza di se stessi che si compie attraverso l’incontro/scontro con un alter ego (si prenda ad esempio la sfida nella sfida tra Fukuda dello Shojo e Hanamichi dello Shohoku). È emblematica in questo senso la scelta narrativa di far coincidere l’avvenuta maturazione individuale dei ragazzi dello Shohoku con una sfida, quella al Sannoh Kogyo, in cui sono chiamati a vincere per la prima volta da squadra. La sfida non più tra singoli vede contrapporsi due classi sociali rappresentate rispettivamente dalle due scuole: se da una parte lo Shohoku è una scuola pubblica del quartiere popolare di Kanagawa, il Sannoh è invece un istituto privato per “figli di papà”; la magia del parquet sta però proprio qui, nel cancellare le differenze sociali, un ruolo che idealmente sarebbe dovuto esser ricoperto proprio dal tanto criticato sistema scolastico.
Ciò che manca in Slam Dunk, ma che Inoue inserirà nella sua futura produzione, è l’elemento “negativo”: nella loro spavalderia i ragazzi protagonisti hanno infatti tutti un animo buono, trasmettono e incarnano pur nei loro difetti dei valori positivi; l’esempio principe si può ritrovare nel personaggio di Mitsui, nella sua “discesa all’inferno” che l’ha portato a essere un teppista e alla successiva risalita come simbolo dello Shohoku in quanto a spirito di sacrificio e abnegazione.
Da un lato l’autore, che era alle prime armi, doveva accontentare il pubblico assai giovane della rivista Shonen Jump, dall’altro non aveva ancora raggiunto maturità e confidenza tali da poter sviscerare della natura umana il lato più oscuro e torbido. Lo stesso mangaka a distanza di anni, interrogato sulla questione dirà: “In termini di yin-yang, Slam Dunk sarebbe lo yin, il lato bello della vita, mentre Vagabond e Real sarebbero lo yang, il lato oscuro“.
Come ogni opera dice molto dell’artista che la realizza, così Slam Dunk svela un giovane Inoue pieno di entusiasmo eppure perennemente insoddisfatto del suo lavoro, che migliora nel disegno capitolo dopo capitolo cosi da passare dallo stile acerbo delle prime uscite, con vignette spesso prive di sfondo, a quelle iper-dettagliate e realistiche delle ultime. Idealmente lo stesso percorso di Hanamichi, che da totale novellino diventa un formidabile giocatore di basket.
RISCRIVERE LE REGOLE DI UN GENERE: LO SPOKON
Fa impressione ricordare, soprattutto in un Giappone diviso tra calcio e baseball, che Slam Dunk ha venduto oltre 120 milioni di copie, più di Capitan Tsubasa (Holly e Benji), convincendo tantissimi giovani giapponesi a entrare nei rispettivi club di basket, ma le influenze che quest’opera ha esercitato anche nell’universo manga sono molteplici, in primo luogo a partire dall’eroe/spalla comica: non era certo usanza che l’eroe protagonista di un manga shonen svolgesse anche il doppio ruolo di “funny stooge”. Quella che oggi è una consuetudine, basti pensare a un manga di grande successo attualmente in pubblicazione come One Piece e al suo Monkey D. Rufy, era difficilmente riscontrabile prima dell’arrivo di Hanamichi Sakuragi, quando l’eroe era un misto di autorevolezza e serietà tali da renderne difficile l’immedesimazione.
Se ad esempio prendessimo Tsubasa Ozora (Holly Hutton), questi è baciato dal talento già in tenera età; al contrario Sakuragi non sa neppure tenere in mano la palla. C’è una ricerca di rivalsa sociale nella crescita sportiva e umana di Sakuragi che in Capitan Tsubasa è del tutto assente: nell’opera di Inoue lo sport non è il terreno di scontro di atleti predestinati, ma l’evasione da un tessuto sociale, quello giapponese, che timoroso del diverso lo emargina e nel campo da gioco (che nel caso di Slam Dunk è una palestra ma potrebbe valere per qualsiasi altro sport) riguadagnare un ruolo, affermarsi e sentirsi parte di un gruppo, rivalersi di una società che non accetta chi canta fuori dal coro. Questo vale per Hanamichi come per i suoi compagni di squadra ad eccezione del solo capitano Akagi, che in virtù del suo ruolo è tenuto a mantenere la disciplina nella squadra ergendosi a modello per impegno e tenacia.
Perché Slam Dunk è anche un racconto di formazione che guida i suoi protagonisti di partita in partita verso una maturità e consapevolezza tali da permettergli di liberarsi dell’etichetta di delinquenti attaccabrighe. Esemplare a riguardo la tavola in cui Hanamichi, ricordando la domanda rivoltagli nei primi tankobon da Haruko, quel “Ti piace il basket?” che lo aveva spinto a unirsi allo Shohoku, le risponde finalmente con sincerità professando, seppure involontariamente, amore a entrambi. Una tavola dal forte impatto emotivo, che idealmente chiude un cerchio svelando un ulteriore inganno di Inoue: perché Slam Dunk non parla solo di basket, ma anche di amore, non quello da cotta liceale, bensì quella spinta entusiastica ad affrontare la vita senza piegarsi alle difficoltà (Hanamichi e il suo infortuno alla schiena) per perseguire le proprie aspirazioni con sincera passione.
In un’opera che di fatto vede per protagonisti solo ragazzi di sedici anni – gli adulti, soprattutto i genitori, non sono pervenuti o mai mostrati in volto nelle fugaci apparizioni – spicca comunque la figura del Professor Anzai che è il solo personaggio per il quale Inoue decide di agire per sottrazione scegliendo di nasconderne gli occhi e le espressioni del viso dietro un’autentica maschera data da baffi e occhiali. Il professore, perennemente vessato dall’esuberanza di Hanamichi, si mostra oltre che paziente anche guida saggia, per quanto silenziosa, del team dello Shohoku; emozionanti le ultime vignette a lui dedicate nelle quali il mangaka ce lo mostra per la prima volta raggiante di felicità scoprendogli lo sguardo e gli occhi colmi di emozione mentre leva i pugni al cielo nell’intento di celebrare i suoi ragazzi. La figura di Anzai incarna per certi versi l’ideale figura paterna assente dalla vita dei ragazzi dello Shohoku ed è un essenziale elemento di stabilità nei fragili equilibri della squadra, perché proprio nel ricoprire il ruolo di padre putativo getta le basi affinché la squadra diventi di fatto una famiglia.
La collaborazione tra i suoi giovani talenti è la chimera che insegue sin dal suo primo allenamento, e quel passaggio “voluto” di Rukawa che decreta la fine del match con il Sannoh Kogyo è una vittoria persino più importante del risultato in sé. In quel passaggio c’è il compimento di un percorso di crescita nel quale finalmente Rukawa antepone il bene della squadra al suo personale e individualistico bisogno di affermazione e Hanamichi accetta con fermezza e maturità il suo essere – almeno in quel momento – un gregario, seppur importantissimo (“La mano destra è di supporto per quella sinistra” è un mantra che il manga ricorda molte volte e che in questa doppia splash page raggiunge la sua sublimazione). Quel passaggio tra due “eterni rivali” è idealmente il lieto fine di una storia che arrivata a quel punto può persino permettersi di relegare il racconto dell’ultima partita a una semplice didascalia, lasciando al lettore il piacere di ricordare i protagonisti nel loro momento di gloria.
Slam Dunk si chiude così, all’apice del suo successo. Laddove altri avrebbero continuato a battere il ferro perché ancora caldo Inoue coraggiosamente, ma coerentemente, prende congedo dai suoi personaggi e nel farlo sembra ricordarci che l’Interhigh in fondo altro non era che un torneo di basket per liceali nel quale vittorie e sconfitte sono importanti solo nella misura in cui aiutano i ragazzi a maturare e a diventare finalmente adulti.
Abbiamo parlato di:
Slam Dunk vol #1/20
Takehiko Inoue
Traduzione di Manuela Capriati
Panini Planet Manga, settembre 2019/maggio 2021
300 pag. ca, brossurato, bianco e nero – 7,00 € cad.
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