Share This Article
Ricorreva, appena due giorni fa, il quarantaseiesimo anniversario dalla scomparsa di Tim Buckley, uno dei più geniali e innovatori songwriter della storia della musica americana. Padre dell’ancor più celebre Jeff, sempre dotato di una vocalità straordinaria e di una rara sensibilità musicale, Buckley non riuscì a vedere la folgorante quanto breve carriera del figlio, in quanto trovò la morte a causa di un’overdose a soli 28 anni.
Nel corso di nove anni di carriera Buckley è riuscito a pubblicare ben nove album, alcuni dei quali lo consegneranno alla storia come uno dei cantanti più influenti e dotati del Novecento.
Nel 1970 si ha la svolta nel suo percorso artistico, segnata da una doppietta clamorosa di LP dal carattere fortemente sperimentale pubblicati per Elektra e Straight Records, label di Frank Zappa: “Lorca” e l’incensatissimo “Starsailor”.
Se “Starsailor” consegna Buckley alla gloria eterna -a dispetto delle poche copie vendute, che invece faranno cadere il musicista statunitense in depressione- meno spesso ci si ricorda di “Lorca”, album nel quale il cantante abbandona ogni pretesa di composizioni pop, rifugiandosi in territori simil jazzistici e più vicini alla musica d’avanguardia.
Il canto di Buckley, assoluto protagonista dei 5 lunghi brani che compongono il disco, tocca apici di profondità che poche volte si riescono a sentire per una voce, usata come strumento con una grazia e una consapevolezza mai vista nel panorama rock nè prima nè dopo. La potenza di questo disco però non sta solo nella sperimentazione sfrenata messa in atto da un 23enne Tim Buckley, ma anche e soprattutto nella carica spirituale che travolge l’ascoltatore: la voce come mezzo per accedere all’anima del cantante e vivere un’esperienza che riporta la musica al suo valore sacrale originale e non depotenziato, sottofondo per i nostri momenti quotidiani.
Dopo il 1970 è stato naturale paragonare cantanti dall’estrema estensione vocale al nome di Tim Buckley, ma mai nessuno è riuscito a padroneggiare in questo modo il proprio strumento, con una naturalezza pari a quella dei più grandi musicisti, come poteva essere il feeling tra Jimi Hendrix e la sua Stratocaster.
“L’ontologia non mi interessa” sbraitava Carmelo Bene nel salotto televisivo di Maurizio Costanzo 26 anni fa; ci perdonerà CB, anche lui insuperato maestro della voce, se a volte ci piace trastullarci con cose molto terrene e di poco conto, ma l’esperienza di Tim Buckley giovanissimo e strabordante di energia, rimane per ricordarci che qualcosa di oltre c’è. Ci deve essere per forza. E per amor proprio, e di questa musica che tanto ci piace e ricerchiamo, ogni tanto vale la pena di prendersi del tempo e abbandonarsi alla potenza catartica che artisti come Buckley sono riusciti a produrre.
(Matteo Mannocci)