Share This Article
Negli ultimi anni tendo ad apprezzare prevalentemente i progetti che vengono grosso modo da una testa sola. Probabile che in parte questa cosa sia dettata dal caso anche perché arriva dopo che per una vita ho pensato l’opposto.
Fatto sta che quando immagino una band, oggi, intravedo un logorio di mediazioni prima ancora che delle miracolose intersezioni. Dopo aver detto anche ai muri che la libertà e la crescita (musicali e non solo) stanno nel trovarsi insieme, oggi son qui a dire che mi emozionano di più quelli che vuotano il loro personale sacco all’improvviso e senza troppe mani a tenerlo largo.
E ora provo a trovare una coerenza tra questo discorso e l’effetto che mi suscita il disco dei Goon Sax che invece è eclettico, figlio di tre autori, post-adolescenziale e, soprattutto, che mi è piaciuto più del previsto.
“Mirror II” è il terzo lavoro del trio australiano e rappresenta un avanzamento a livello stilistico, compositivo e proprio in termini di mera esperienza, dal momento che i tre hanno debuttato veramente da ragazzini (“Up To Anything”, 2016). Il loro jangle pop si era “allargato” già alla pubblicazione del secondo album (“We’re Not Talking”) e qui si procede in quella traiettoria ma con qualche importante cenno di sterzata wave e dream pop. In primis per via del singolo “Psychic” che è un bellissimo rifugio di sintetizzatori, battiti elettronici e strofe che si srotolano da sole. È uno di quei brani che non fa in tempo a iniziare che si capisce quanto sia ispirato. E su un andazzo non dissimile ci sono “In The Stone” e “The Chance” che godono del protagonismo di Louis Forster e di una costruzione melodica che sta in piedi grazie al suo tono moderatamente scazzato, degno di un Tom Vek.
Di tutt’altra pasta sono i pezzi dove al microfono c’è James Harrison, crudi, senza orpello alcuno, storti. E poi ci sono quelli come “Desire” dove è dominante la voce femminile, quella di Riley Jones. Canzoni dilatate, atmosferiche, dreamy e avvolgenti.
Dunque, troppe teste? Troppi cuochi a girare la stessa zuppa col mestolo? E se fosse invece che ognuno gira il suo personale pentolone con un onesto e affamato scambio di assaggi (i ritornelli boy-girl, per esempio)? Quale potrebbe mai essere il danno?
Non so dire con esattezza assoluta cosa leghi i momenti diversi di quest’album ma c’è una coerenza che viene da lontano, da un percorso fatto insieme (la lettura di un certo pop con le chitarre da cui si è partiti), da un senso di fine dell’adolescenza pungente, incerto e già nostalgico che permea in modo omogeneo tutto il lavoro.
Ogni tanto capita questa cosa quando metti insieme tre bambini di un anno e mezzo o due. Ognuno lì col suo gioco individuale ma in una magica e silenziosa coordinazione di squadra.
80/100
(Marco Bachini)