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Il festival in pillole
BELPHÉGOR di Henri Desfontaines – TOMMASO ARI MOSCATI
Giallo a tinte orrorifiche dell’epoca del muto, diviso in 4 episodi. La storia scritta da Arthur Bernède è nota ai più ancora oggi in Italia per lo sceneggiato Belfagor ovvero Il fantasma del Louvre che la RAI trasmise nel 1966. Figura dalle capacità apparentemente sovrumane, capace di materializzarsi dal nulla con il favore delle tenebre, Belphégor fa la sua prima apparizione nel Louvre, nella sala degli Dèi barbari, e uccide un guardiano notturno. Chi si cela dietro a quella maschera inquietante? Ben presto gli intenti criminali – il piano diabolico per incastrare il giornalista Bellegarde e il furto di un tesoro antico dal museo – tradiscono le bramosie più umane. Il fantasma come proiezione delle pulsioni più recondite, ombra della sete di vendetta e di rivalsa. È il detective Chantecoq, interpretato da René Navarre, a portarci verso la risoluzione dell’enigma, conducendo un’indagine con metodi meno ortodossi di quelli dell’ispettore Ménardier. Non soltanto il Re dei detective (come recitano più volte le didascalie), ma ai nostri occhi al contempo il Re dei criminali, astuto e spietato quando vuole. Infatti, il volto di Navarre, con quell’espressione scaltra e i sorrisi beffardi, le sue abilità nell’arte del travestimento, nell’uso di botole e passaggi segreti, strizzano l’occhio alla sua iconica interpretazione del criminale Fantômas, nella serie Gaumont realizzata a partire dal 1913 da Louis Feuillade.
CENTER STAGE di Stanley Kwan – FRANCESCO GRIECO
Morendo, diventare immortale. Questo il destino di Ruan Ling-yu, stella del cinema muto cinese, suicidatasi neanche venticinquenne in seguito allo scandalo scoppiato sui giornali per la sua relazione con un uomo sposato e già provvisto di un’altra amante, il ricco e maturo playboy Tang Chi-Shan. Stanley Kwan nel 1991 le dedica questo film, presentato nella versione director’s cut di 155′ al Cinema Ritrovato, che è insieme: 1) ricerca selettiva su un repertorio di foto e di frammenti di pellicole interpretate da Ruan Ling-yu; 2) commento a margine sul personaggio di Ruan ad opera dei colleghi sopravvissuti (tra cui le attrici Lim Cho Cho e Li Lili), di Kwan e dei suoi attori (in bianco e nero); 3) infine sagace esperimento di reenactment (a colori), che evita la banale linearità del film biografico e sfocia nella vertigine del puro metacinema. La struttura prismatica del film di Kwan, in cui tutto si tiene, riflette la personalità sfaccettata della protagonista, a cui dà il volto nelle scene di finzione la meravigliosa Maggie Cheung. Sul set di film spesso perduti, prodotti dalla Lianhua e diretti da registi come Sun Yu, Bu Wancang, Wu Yonggan, Maggie/Ruan è una presenza carismatica, dal talento cristallino. Nel privato, le cose non vanno altrettanto bene, tra il suo primo uomo, il prodigo Chang Ta-min, che dopo la separazione le chiede denaro continuamente e le fa anche causa per farsi mantenere completamente da lei, e il nuovo amore con Tang Chi-Shan, minato dalla stampa scandalistica, avida di notizie pruriginose. Le lacrime di Ruan, allora, scorrono ininterrotte anche nelle pause tra una scena e l’altra, non c’è più soluzione di continuità tra la fiction dei ruoli drammatici, sempre più impegnati (New Women di Cai Chusheng viene censurato dal Kuomintang), e i problemi reali della vita vera. Nasce il cinema sonoro, muore Ruan. Un brodo di pillole ingerito, nella ricostruzione del suicidio, un bilancio esistenziale struggente in voce over lasciano spazio allo svelamento del set di Kwan nelle scene del funerale. Maggie Cheung in apnea nella bara finta prima del ciak, il ciak definitivo scelto per il montaggio finale da Kwan, la foto in primo piano della vera Ruan morta nel feretro. Titoli di coda.
FRAU MARLENE di Robert Enrico – EMANUELE DI NICOLA
Robert Enrico, gran regista sottovalutato, irrompe nella retrospettiva Romy Schneider: i nazisti uccidono moglie e figlia del dottor Dandieu (Philippe Noiret), lui sceglie la vendetta personale. Trova il vecchio fucile del titolo originale (Le vieux fusil) e assedia i nazi nella sua tenuta di campagna: quando arrivano i partigiani, li respinge, vuole fare da solo. Fiammeggiante “revenge” bellico che trasforma la guerra in una questione privata: Dandieu, chirurgo, opera chirurgicamente per accerchiare ed eliminare il nemico, dando l’impressione, da solo, di essere un intero battaglione partigiano. Traccia di memoria metacinematografica (un filmino di famiglia), azione strategica e palpitante, un Noiret gigantesco: Schneider come novella Giovanna D’Arco brucia al fuoco della resistenza, poi diventa fantasma d’amore prima di Dino Risi, visto che appare principalmente nel flashback e nel ricordo, e funge da detonatore alla vendetta implacabile. Come da più parti notato, il Tarantino di Bastardi senza gloria è passato da qui. Spietato e struggente, da riscoprire.
LA COSA di Nanni Moretti – EMANUELE DI NICOLA
Il 12 novembre 1989 il discorso di Occhetto segna l’inizio della fine del PCI. Nanni Moretti nel suo La cosa riscrive in documentario la finzione di Palombella rossa: la piscina metaforica e psicanalitica, in cui nuotavano i fantasmi della sinistra, qui lascia spazio ai volti dei militanti. Solo loro: nelle sezioni comuniste, da Testaccio a Lambrate, gli iscritti si interrogano sul futuro del partito e la sostanza della “cosa” nella definizione occhettiana, che evoca quella di Carpenter, terrorizzante perché indefinita. Cosa è la cosa? Moretti registra le persone comuni in mezzo al guado, il popolo comunista al cambio di pelle: questa è la forza del doc, espellere del tutto i dirigenti e concedere spazio totale ai militanti. D’altronde è nel DNA morettiano, nella storica critica contro i capi della sinistra incapaci di leggere la massa: inquadrando i visi dei comunisti dà loro dignità, li riporta al centro del discorso attraverso lo spazio davanti alla macchina da presa. Fotografia di un cambiamento doloroso, della Fine di qualcosa, che diventa cinema come atto etico: no alla nomenclatura, sì alla gente comune. Queste persone raccontano storie “vere”, reali. Sono loro la cosa di cui ci scordiamo, l’elefante nella stanza che non vediamo. Un film datato? Inserito nel suo tempo, piuttosto, ma il restauro lo impone come orgoglioso prequel dell’oggi: meglio i confusi comunisti morettiani di ciò che verrà dopo, il berlusconismo, la finta sinistra, i social network, i grillini.
LA DONNA DEL GIORNO di George Stevens – EMANUELE DI NICOLA
Stati Uniti, 1942. Spencer Tracy è un cronista sportivo che si innamora di una notista politica, Katharine Hepburn. I due si sposano, ma… Deliziosa commedia di George Stevens coi tempi del muto (soprattutto Stanlio e Ollio), costruita sul duetto tra i magnifici interpreti che vale la partita. Non solo i dialoghi, dunque, ma anche le movenze dei corpi, il gioco degli equivoci e l’inversione dei ruoli (donna forte e maschio sottomesso) formano un esempio supremo di comicità che ottant’anni dopo non perde un colpo. Retaggio datato di una società maschilista? Forse, ma il duello è irresistibile e – soprattutto – la regia di Stevens sublime: un fuoco di fila che trova l’apoteosi nella sequenza finale in cucina a montaggio alternato (lui dorme, lei tenta invano di preparare la colazione), capolavoro slapstick che piacerebbe a Buster Keaton. Applausi in sala a scena aperta.
L’ENFER di Henri-Georges Clouzot – EMANUELE DI NICOLA
Storico progetto fallito di Clouzot, tentato nel 1964 e interrotto per la malattia del regista e dell’attore Serge Reggiani. Restano cinque minuti: a ricordare che non tutti i film prendono vita, esistono anche i Don Chisciotte. Lo testimonia questo frammento di frammenti onirici: Clouzot riprende Vertigo e anticipa Lynch, si lancia in ardite fluorescenze, monta in rewind, gira attorno al corpo attoriale di Romy Schneider, avvolta da cromatismi e piena di brillantini. Anche certa videoarte abita qui, perfino l’embrione di Refn. Romy è figura dell’inconscio che cambia forma e colore, tutto nella mente. Cosa poteva essere? Un sogno, probabilmente. È un magnifico fallimento.
MICHAEL CIMINO UN MIRAGE AMÉRICAIN di Jean-Baptiste Thoret – STEFANO LALLA
Documentario d’interviste frontali che accosta audacemente i grandi nomi del cinema americano ai volti sconosciuti ma familiari degli operai e delle comparse di The Deer Hunter, il film di Thoret, nella sezione “Documenti e documentari” del Cinema Ritrovato, sorprende anche per l’approccio libero, per la scelta di serbare i volti noti per la seconda parte e per la cura fotografica decisamente sopra la media. Dopo la memorabile raccolta dei ricordi comunitari legati alle riprese e all’influenza del capolavoro di Cimino sulla cittadina industriale di Mingo Junction, si fa un passo indietro e, quasi inaspettatamente, la sequenza delle immagini assume una forma più ordinaria: ricominciamo infatti dalla storia dell’opera prima di Cimino, Una calibro 20 per lo specialista, e i volti noti di Oliver Stone, Quentin Tarantino e non solo ci accompagnano d’ora innanzi nella storia cronologica del grande autore. La durata (centotrenta minuti) non scoraggerà gli appassionati, soprattutto per la presenza di una lunga intervista a Cimino registrata nel 2010, durante un viaggio alla scoperta dell’Ovest e dei luoghi cinematografici a lui cari.
MOLTA BRIGATA VITA BEATA di George Stevens – STEFANO LALLA
“Something to live for” è l’ampia retrospettiva che il Cinema Ritrovato ha dedicato a George Stevens e che ci ha permesso di vedere su grande schermo, fra le altre, questa sua preziosa pellicola sul sovraffollamento delle abitazioni a Washington negli anni della guerra. Commedia casalinga, degli spazi angusti e delle barriere architettoniche, con elementi screwball e anche del buon vecchio slapstick, The More the Merrier è dominata dai suoi tre protagonisti, la rigida padrona di casa (la simpaticissima Jean Arthur) e i suoi due affittuari, uno furbo e intrigante (Charles Coburn, grande e agilissimo), l’altro attraente ma in subaffitto (Joel McCrea, eligible bachelor da antologia, un predestinato). Tra pantaloni fiondati dalle bretelle elastiche, porte che si chiudono dispettosamente e tante, tante tragedie appena sfiorate, Stevens racconta la convivenza forzata di due giovani appartenenti alla classe lavoratrice con un vecchio furbastro, avido lettore di Superman e Dick Tracy, che s’improvvisa cupido, tenendo abilmente sullo sfondo – distante dai sentimenti della commedia, ma sempre presente per le conseguenze che determina – il secondo conflitto mondiale.
LA PISCINA di Jacques Deray – EMANUELE DI NICOLA
I riflessi della piscina di Deray risplendono nella proiezione in Piazza Maggiore. Il “giallista” Jacques Deray gira un film post-sessantottino, letteralmente, nel senso che uscì nel ’69: un passo a quattro di seduzione incrociata dove Romy Schneider si denuda, a partire dalla prima sequenza. A bordo piscina c’è un rapporto che si scioglie al sole: Delon-Schneider si presentano come coppia idillica ma sono destinati a capitolare con l’irruzione di Maurice Ronet. E soprattutto della figlia Penelope, colei che tesse la tela, una Jane Birkin diciottenne e lolita, sette anni dopo il film di Kubrick, dalla pelle magnetica, da cui è impossibile staccarsi. La cinepresa di Deray di giorno scivola sulla superficie dei corpi, audacemente, e di notte
concretizza le regole dell’attrazione: sa che il desiderio non è solo languido, ma anche violento, che sesso e morte vanno a braccetto. Mai abbastanza celebrata la prova della Schneider, titolare della retrospettiva al Cinema Ritrovato, che con Delon forma un rapporto modernissimo: «Sali pure in camera sua», sussurra all’amato sapendo che il richiamo è implacabile, salvo poi ristabilire lo status quo con un finale di ambiguo sentimento, di coppia complice e aperta (succederà ancora?). Non un capolavoro del cinema francese, nell’anno di La sirène du Mississippi e Ma nuit chez Maud, incastrato fra Truffaut e Rohmer, eppure un film seminale, riscritto in tutte le salse: Guadagnino in A Bigger Splash, naturalmente, ma anche Ozon
con Ludivine Sagnier al posto di Birkin in Swimming Pool. Solo che questi hanno i vezzi del postmoderno, la libertà sessuale dell’oggi: Deray sapeva evocare il mistero dell’eros con le sue ellissi notturne.
UN POSTO AL SOLE di George Stevens – EMANUELE DI NICOLA
Crepuscolo del sogno americano: nel 1951 Stevens adatta il romanzo di Dreiser (An American Tragedy) per il suo film più famoso, girato dopo la guerra, quando il regista diventa ombroso e problematico. Come il personaggio di Montgomery Clift, che vuole ottenere il suo spazio sociale ma finisce assassino, ammaliato da Elizabeth Taylor che vince il suo cuore e anche la lotta di classe contro Shelley Winters. Rivisto oggi questo omicidio di sconcertante modernità (ispirato a una storia vera) brilla per la crudeltà dell’assunto, per la mano del fato che si stringe implacabile: «So che sei un bravo ragazzo», mormora la madre americana poco prima del delitto, e lui continua a “vedere” in sovrimpressione il bacio con Elizabeth Taylor, anche alla sbarra, anche condannato. Forse ne è valsa la pena? Forse era inevitabile? Il resto è Storia: l’arrivo di George, dall’autostop al tentato ascensore sociale; il richiamo della carne irresistibile proprio perché proibito (gli operai non possono frequentare donne); la sequenza notturna sul lago, una sorta di Stige che vira brutalmente in noir; il processo nato già scritto. Una tragedia operaia che mostra il negativo del boom economico, trascinando giù tutti i personaggi, vivi e morti, nessuno escluso. La retrospettiva su Stevens al Cinema Ritrovato dimostra che il dramma ancora avvolge ma il regista, fuori dal luogo comune critico, non è qui al suo zenit: le commedie anni Quaranta sono insuperate.
VERSO LA VITA di Jean Renoir – CHIARA CHECCAGLINI
Nel suo fortunato 1936 Jean Renoir realizza Verso la vita, adattamento dell’opera Bassifondi di Gor’kij, su commissione del produttore Kamenka. Film “del Fronte Popolare”, Verso la vita ha un’atmosfera peculiare. Del tutto inverosimilmente ambientato in Russia, racconta di un ladro perbene in cerca di redenzione e di un’evoluzione sentimentale, Jean Gabin/Pepel, e della sua comunità di reietti, tutti alloggiati in un caseggiato cadente gestito da un proprietario orribile e avido, sposato a una donna più giovane altrettanto meschina. L’ambiente regala una galleria di varia umanità emarginata, e il film passa in rassegna lo spettro di reazioni all’esistenza, dalla commedia al tragico. Gabin indossa con il solito fascino buontempone i panni di Pepel, o forse è Pepel a indossare quelli di Gabin: deciso a fare un gran colpo per fuggire dai bassifondi, si ritrova a rubare all’unico nobile nullatenente della zona (Louis Juvet). Ovviamente, Gabin e Juvet diventano amiconi invece che nemici, meravigliosamente a loro agio nell’unire le proprie vite, consapevoli della diversità dei propri obiettivi. In fondo è questa la vera relazione romantica del film, checché ne pensi Natasha e il suo lieto fine.
LA VOLEUSE di Jean Chapot – EMANUELE DI NICOLA
Una donna abbandona il figlio alla nascita, lo rivede sei anni dopo e ne è folgorata. Lo rivuole. Storia di un’ossessione e dell’ossessione di un’immagine: è la visione del bimbo che porta Julia verso l’impazzimento. Ma storia, soprattutto, di un confronto di coppia: Romy Schneider e Michel Piccoli giocano al massacro in interno in questo prequel di Les choses de la vie, primo incontro tra gli attori, uniti dal regista Jean Chapot in un film franco-tedesco (ne esistono due versioni). Il tavolo coniugale convoca il dubbio etico: si è genitori di nascita o di diritto? La coppia si logora su due poli opposti, sfiora la rottura, infine compie un gesto morale. Schneider si muove “stranamente” in un contesto operaio, le fabbriche della Ruhr, e dimostra qui il suo talento anche teatrale su sfondo realistico, che viene improvvisamente astratto dai monologhi scritti da Marguerite Duras: «Da giovane pensavo che l’amore fosse fare l’amore».
(Redazione di Mediacritica)
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