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Sono passati dieci anni esatti da quell’ottobre del 2011 che ha trasformato Elizabeth Grant in una delle voci contemporanee più significative ed esemplari di un’epoca e di una generazione che saputo fare del recupero della tradizione cantautorale un elemento virtuoso di narrazione contemporanea. “Video Games”, suo brano d’esordio diventato in poche settimane virali, fu l’inizio di un’ascesa irresistibile per una cantautrice unica nel suo genere, discussa e controversa, ma che negli anni è riuscita a imporsi come uno dei fenomeni musicali più trasversali e riconoscibili. Amati da chi la considera un “guilty pleasure”, amata da chi ha ascolti nostalgici e amati dalle audience più attente alle mode. Otto album, armonie e melodie dai tratti ricorrenti e quasi monocorde, ma una capacità rara di lasciare il segno con canzoni che, è inutile negarlo, sono rimaste scolpite nell’immaginario collettivo. In tutto, a partire dai titoli delle canzoni, per finire ai colori di foto e videoclip.
In occasione dell’uscita del nuovo album, “Blue Banisters”, secondo LP del 2021, dopo “Chemtrails over the Country Club” abbiamo deciso di ripercorrere dieci anni di Lana del Rey in sette tracce simbolo della sua carriera.
7. “Brooklyn Baby” (da “Ultraviolence”, 2014)
In pochi ricordano che uno dei brani più intensi ed eleganti di “Ultraviolence” era stato pensato per un duetto con Lou Reed che ci lasciò proprio nel giorno in cui Lana Del Rey aveva fissato un incontro per parlare di questa collaborazione. Era appena atterrata a New York quando fu sconvolta, come buona parte del mondo, dalla notizia della scomparsa della voce simbolo di NYC. Di quella collaborazione mancata è rimasto il verso “Well, my boyfriend’s in a band / He plays guitar while I sing Lou Reed”, un ritratto sarcastico e spietato della generazione Brooklyn Anni Zero e di una generazione intera: I’m talking about my generation / Talking about that newer nation.
(Piero Merola)
6. “Blue Jeans” (da “Born to Die”, 2012)
Inizialmente nata come singolo di accompagnamento del folgorante esordio “Video Games” e poi come b-side di un altro singolo rimasto scolpito nell’immaginario collettivo come “Born To Die”, Blue Jeans inaugura quel filone di tracce retrò eredi del sound di Chris Isaak che hanno fatto la fortuna di Lana Del Rey.
Con quell’andatura sinuosa da gemma Americana vintage è una sorta di risposta 2.0 a “Goodnight Moon” firmata Shivaree e inclusa nella colonna sonora di Kill Bill Vol.2.
A Quentin Tarantino sarebbe sicuramente piaciuto scoprirla, ma questa b-side sarebbe diventata in pochi mesi una hit, conquistando un disco d’oro addirittura in Italia che come sappiamo bene, allora come oggi viaggia su dinamiche un po’ più lente del resto del mondo.
(Piero Merola)
5. “Ultraviolence” (da “Ultraviolence”, 2014)
Nel 2014 il personaggio Lana Del Rey era già un mito collettivo tanto vecchio quanto nuovo: nostalgico e retro per i fasti dell’American dream da un lato, ma innovativo nel rompere, non per primo, la barriera fra indie e mainstream ergendosi come icona dell’hipsterismo dei primi anni dieci. Più che concept album, era chiaro che i dischi di Lana del Rey provenissero da un “concept human”, con buona pace di tutte le separazioni fra arte e artista. Ma se “Born To Die” (2012) era esplosivo e provocatorio nei suoi intenti, forse “Ultraviolence”, soave e onirico, riesce addirittura a essere una pellicola più interessante, lasciando trasparire il lato romantico del moniker di Elizabeth Grant. Quasi racchiusa in un grammofono, la title-track è una dichiarazione d’intenti per la prossima fase di Lana del Rey come personaggio pubblico: divinismo americano sì, ma anche la malinconia glamour di una femminilità molto più matura, per quanto anacronistica (la citazione alla hit dei The Crystals “He Hit Me (It Felt Like a Kiss)” anticiperà di qualche anno il famigerato post su instagram). L’ingenuità puerile di Lolita lascia finalmente spazio alla pienezza personaggistica di Ada, e con lei la carriera di Lana del Rey acquista l’ardore di un songwriting più introspettivo.
(Viviana D’Alessandro)
4. “Venice Bitch” (da “Norman Fucking Rockwell!”, 2019)
In un seducente vortice di pianoforte, organo, chitarre e sintetizzatori, la nuova Lana Del Rey di Norman Fucking Rockwell! (2019) è probabilmente la versione di sé più ambiziosa e ricercata. “Venice Bitch” esce nel 2018, un anno prima dell’album nel quale verrà poi inclusa, e rappresenta il segnale incontrovertibile dell’evoluzione artistica che Lana stava attraversando in quel momento. Avvolta in una nube di un lisergico psych-pop e di un fragile folk cantautorale Anni Sessanta, “Venice Bitch” è per certi versi il manifesto di poetica del disco intero, immersa com’è in un immaginario stelle-e-strisce di cui tutto l’album è intriso. Quadretti familiari provenienti da quell’idea onirica di States dipinta proprio dal pittore che dà il titolo al disco si rincorrono in un’atmosfera candida e rarefatta. “Nothing gold can stay”, ripete Lana, un memento mori efficace e tagliente, che ci riporta sulla terra dopo le speranze e le preghiere. “You write, I tour, we make it work / You’re beautiful and I’m insane / We’re American-made”, canta Del Rey: è il grande sogno americano che non viene edulcorato o esasperato ma che è semplicemente e plasticamente disegnato dalla musica e dal testo. In nove minuti abbondanti, caratterizzati da momenti strumentali prolungati e affascinanti, Del Rey canta di un modo di essere e di vivere che trascende la vicenda particolare e s’incarna in qualcosa di trasversale ed eterno.
(Samuele Conficoni)
3. “Summertime Sadness” (da “Born to Die”, 2012)
No, non mi sto riferendo al remix EDM-con-voci-femminili di Cedric Gervais.
Curiosamente, la prima esibizione live di “Summertime Sadness” risale al 5 Dicembre 2011, il giorno in cui festeggiavo 20 anni. Non mi piaceva Lana Del Rey, ma già notavo quanto piacesse a persone che non avevano niente in comune tra loro. Piano piano sarebbe iniziata a piacere anche a me.
In questo pezzo è molto evidente una delle antinomie centrali di Lana Del Rey, ovvero il rendere maledetta una voce da sexy baby doll. “Summertime Sadness” è un devastante, quanto malinconico, earworm. Ti si incolla addosso ti costringe a far ripartire la canzone da capo quelle sette o otto volte di fila. È una ballata semplice, per quanto anticipi la tendenza -oggi consolidata- di piazzare il ritornello prima della strofa iniziale.
Il tema centrale è una celebrazione della volatilità della giovinezza, quasi della fragilità dell’esistenza stessa. Amore e morte ballano elegantemente su un beat dagli echi trip hop. Una vita potenzialmente più breve non è del resto più intensa e quindi sostanzialmente più bella? O forse il fascino del morire giovani, belli ed innamorati risiede nel cristallizzare quell’immagine di sé stessi. Non servirà fare i conti con il prossimo gelido inverno, vivremo per sempre in estate, dove non ci manca nulla. Nemmeno la tristezza.
“Got my bad baby by my heavenly side / I know if I go, I’ll die happy tonight”
(Carmine D’Amico)
2. “Video Games” (da “Born To Die”, 2012)
Quando nel 2017 « The Washington Post» ha pubblicato il famigerato articolo sostenendo che lo Xanax stava trasformando la musica americana in un “pill pop”, una delle accusate principali era – ça va sans dire – Lana Del Rey. Il suo stile ampolloso, orchestrale e onirico con poche concessioni alle ritmiche era espressamente citato come un esempio lampante di quella tendenza.
E indubbiamente anche Video Games, il suo primo grande successo, possiede già tutti quegli elementi. L’impatto che ha avuto Lana Del Rey è stato realmente forte nell’immaginario pop: la sua voce sostenuta che rimanda al passato remoto, la sua immagine da mito cinematografico hollywoodiano, il suo approccio da principessa indolente e dolcemente immersa in uno spleen melanconico.
Lo stile di Lana Del Rey è rimasto sostanzialmente immutato attraverso i tanti album e ha indubbiamente contrassegnato gli anni Dieci nel profondo se è vero che, pur potendo essere accumunata ad altri artisti circa l’andamento “da ansiolitico”, è tra le poche a puntare sulle orchestrazioni e su sonorità che sono, di fatto, vintage. Il che la rende – in ultimissima analisi – una cantautrice con una personalità unica.
(Paolo Bardelli)
N.R.: Questo articolo è un estratto parziale tratto da “Piccola Guida agli Anni Dieci – 50 fatti, 50 album, 50 canzoni” (Arcana), di Paolo Bardelli
1. “The Greatest” (da “Norman Fucking Rockwell!”, 2019)
“The Greatest” rappresenta indubbiamente la akmè di Norman Fucking Rockwell! e forse il momento cantautorale più potente e, per certi aspetti, più politico di Lana in assoluto. Questo perché “The Greatest”, anche aggiornato al presente, è un brano perfetto per provare a interpretare il mondo indecifrabile nel quale siamo immersi. Uscito come videoclip insieme a “Fuck It I Love You” giusto una settimana prima della pubblicazione dell’album, “The Greatest” è un inno apocalittico che chiude con eleganza e pathos gli Anni Dieci di Del Rey, una apokálypsis nel senso greco, originario, quello, cioè, di rivelazione. Nel brano il passato, il presente e il futuro si tengono per mano e coesistono in un unico istante. Lana rimpiange prima Long Beach poi New York, ripensa all’ultimo stop di Dennis Wilson prima della fatale Kokomo e guarda con un’aria da Cassandra Los Angeles che in lontananza brucia: “Hawaii just missed a fireball / L.A. is in flames, it’s gettin’ hot / Kanye West is blond and gone / ‘Life on Mars’ ain’t just a song”, intona nel finale, con aria cantilenante e stanca, prima che una outro tutta pianistica ci conduca alla fine della Storia, quantomeno della nostra storia umana, con il pianeta in fiamme e la distruzione di ogni cosa terreste. Il riscaldamento globale era già un tema all’ordine del giorno. Pochi mesi dopo sarebbe arrivata l’epidemia. Lana Del Rey ci aveva visto giusto: “I hope the live stream’s almost on”, conclude poi con tono beffardo mentre tutto intorno si spegne pian piano. Se questo brano continuerà ad “avere ragione”, beh, si salvi chi può.
(Samuele Conficoni)