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A distanza di tre anni dal grandioso Double Negative, distruzione e rigenerazione della forma-canzone tra esplosioni e ricostruzioni e tra tradizione e sperimentazione, in HEY WHAT la band, ormai divenuto un duo, continua a proseguire nella stessa direzione, confezionando un’opera ambiziosa e frizzante.
Tutto quello che rintracciamo in HEY WHAT c’è sin dall’inizio della loro carriera: con sussurri di chitarra appena accennati, fragori improvvisi, ritmiche incerte e paesaggi lunari i Low provano da sempre a dare una forma al vuoto. È un compito difficile: i Low, però, lo eseguono magistralmente. Col passare del tempo, la band di Mimi Parker e Alan Sparhawk ha imparato a osare ancora di più e a capire che da quei deserti glaciali fatti di silenzio e di inquietudine si poteva smussare qualcosa di ancora più monumentale. Come nel mondo antico l’epica greca sarebbe mutata, nel corso dei secoli, dai poemi omerici agli epyllia di Callimaco e poi, ulteriori secoli dopo, a quelli – nel mondo latino – di Catullo, così i Low ridisegnano il sentiero dell’alternative rock, dipingendo versioni sempre diverse di quell’incedere maestoso che da sempre caratterizza la loro produzione.
HEY WHAT, insomma, prosegue nel solco di Double Negative, che a sua volta era un notevole perfezionamento di un album non perfetto ma estremamente affascinante come fu Ones and Sixes, uscito nel 2015, che poneva le basi per ciò che sarebbe venuto dopo. Con Double Negative era chiaro che i “nuovi” Low non erano affatto diversi dai precedenti: semplicemente ricreavano sé stessi in un nuovo corpo ed entro nuovi ambienti, portando avanti la stessa opera di “evangelizzazione sonora” che li aveva contraddistinti fino ad allora: evangelizzare chi ascolta all’idea che sia possibile creare qualcosa di durevole in un mondo fragile, frammentato e zoppicante, consci del fatto che ciò che si crea non possa che essere fragile, frammentato e zoppicante.
Proprio nel solco di Double Negative, dunque, i Low ripartono più agguerriti che mai. In HEY WHAT fanno uso, come nel disco precedente, di soluzioni musicali coraggiose e complesse, ponendo al centro del discorso la distorsione e, appunto, il frammento, pezzi di un puzzle che va ricomponendosi lentamente, ma in una marcia quasi funebre che sembra accompagnare il lentissimo spegnimento di una stella gigante. È il titanismo dell’eroe sofocleo, come per esempio l’Aiace, o quello del Saul di Alfieri. C’è qualcosa di romantico, certo, ma c’è soprattutto qualcosa di cageiano, di non-detto, di incompleto e di livido, un sussulto sonoro che potrebbe rappresentare l’ultimo colpo di coda della specie umana sulla terra prima della sua estinzione o addirittura la solitudine di questo pianeta senza più vita in esso.
Quel senso di astratto che emanava Double Negative è in HEY WHAT altrettanto potente, benché costruito attraverso differenti ricerche di suono e di forma. L’alternanza di esplosioni e silenzi, di frequenze disturbate e melodie cristalline di “Days Like These” si risolve in un magma intricato di fumo e di lava. Con modalità differenti, ma con la stessa energia e convinzione, in “The Price You Pay (It Must Be Wearing Off)” il gruppo crea una climax che nello stesso momento in cui sembra rivelarci qualcosa finisce per riavvolgersi su sé stessa. In questa poetica del frammento, dove le voci sono a tratti armoniose e a tratti cifrate, quasi indistinguibili tra loro e dal fiume di fuoco che le avvolge, percepiamo vibrazioni, scosse, frequenze disturbate e chitarre sofferenti che, come in Double Negative, rendono il minimalismo del gruppo foriero di esperienze rare e di sensazioni contrastanti e potenti.
In questo regno tenebroso Alan Sparhawk e Mimi Parker si muovono con dimestichezza e con gioia, imprimendo a ogni composizione un’energia e una convinzione incredibili, dirigendo ciò che resta del rock verso lidi imprevedibili e nuovi, colonizzando terre disabitate senza alcun timore o inquietudine. È un linguaggio che non può fare a meno delle sconnesse peregrinazioni elettroniche di “White Horses” e delle oscure ferite che pulsano in quel vuoto infinito che è “All Night”. I due si muovono ormai in un cosmo nebbioso e difficile da descrivere in termini diversi da quelli cui hanno dato vita in HEY WHAT e in Double Negative. Navigano a vista, come tutti noi, e il viaggio in cui si sono imbarcati rende necessaria ogni singola tappa.
80/100
(Samuele Conficoni)