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Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.
#2
Le mie mattine in bottega sono costanti cicliche di placidità che si riverberano artificiali come falsetti; nelle settimane, nei mesi, negli anni. Vanno dall’atelier al bancone, dal bancone alla vetrina, dalla vetrina allo specchio (quello della toilette). Scendono a patti con le tinte scure del mio rimosso e ne debellano i tormenti, alterandoli.
Sigaretta alla mano, chiave dell’automobile in tasca, baguette sottobraccio. Se c’è un aspetto che faccio fatica a cogliere riguarda il resto della gente, quella che si affaccenda al mattino. Dov’è che va per l’esattezza? A calmarsi?
Pare che ognuno cammini col proprio affanno, convinto che accorciare il fiato sia la mossa infallibile per ritrovare la propria calma. Qualcuno riesce a rilassarsi, senza distendersi, magari il tempo di esaminare un pain au chocolat e farsi convincere dalla sua doratura tanto da chiederle il permesso di poterla assaggiare. C’è poi chi si mette a strattonare i figli rimbrottandoli dall’alto, come se nessuno più sapesse dell’inutilità di un rimprovero, quando questo si perde nell’alta quota.
Mio padre non si abbassava mai sulle ginocchia per sgridarmi, doveva piacergli accorciare il tempo oltre che il fiato. Lasciava al brusio del traffico il compito di vanificare ogni parola, io nel mentre mi sfidavo a rincorrere i suoi occhi. Erano, con tutta evidenza, più attenti ai semafori che al contatto indispensabile tra chi tenta d’insegnarti qualcosa e chi vorrebbe riuscire a trattenerne almeno una parte. Così lo salutavo con la faccia tipica dello scolaro che, preoccupato, legge la lezione scritta sulla lavagna ma non l’ha capita.
Arrivare a scuola non era che l’attesa di un intervallo dove smettevo di affaccendarmi per mettermi al riparo. Lo facevo ai piedi di due o tre alberelli che a me sembravano conifere pronte a cascarmi addosso. A fronte bassa potevo vedere solo le radici dell’albero, e quando le fiutavo a tramar sgambetti erano guai. Perciò mi accontentavo di protestare a naso per aria contro le foglie caduche, contro chi si ostinava a tenerle appese a pochi rami che rischiavano di appiattirsi sulla loro stessa secchezza. Sentivo di aver trovato la mia pace, per quanto scomoda fosse, invece stavo solo perpetuando quel dislivello lì. È curioso come la mia epistassi scelse questa cornice alfa per consentire alle mie rappresentazioni di liberarsi intermittenti, e non di ristagnare sottoterra.
Le cortecce, le foglie caduche, le passeggiate in foresta, le voci filtrate dall’ombra di un auto-tune; le cose che calmavano Pauline erano davvero quattro, il doppio esatto dei membri ufficiali dei Big Red Machine (turnisti a parte). Il disco omonimo sancì ‒ a posteriori ‒ il nostro progetto comune di volerci allontanare senza volerci perdere. Aaron Dessner e Justin Vernon, The National e Bon Iver; io e lei a cercar compromessi vani per abbandonare la bussola ai piedi dei monti Vosgi, in mezzo ai loro venti, non so se per controllarli o per attendere che fossero i faggi a smettere di tremare.
«Jean-Michel, a cosa pensi?» mi chiese. Se c’è una domanda al mondo che mi suona attaccaticcia è questa.
La premura di Pauline mi gratificava, certo, ma perché invadere ciò che l’altro non mette a disposizione? Perché interrompere quel che si attiva in chi è assorto? Non s’è mai visto che un pensiero venga recuperato se lasciato a mezzo mentre va costruendosi, nè che poi si ricompatti tanto in fretta da poterlo esternare.
«Andiamo via, sta arrivando il freddo!», le risposi scostante.
“Took the morning to float / Took the morning to find / I got a vision of a mission but an awkward vibe / Too livid, too scared”. I versi di I Won’t Run from It in sovraimpressione sul mio imbarazzo, i Big Red Machine a tracciare il perimetro di una voglia lontana dalla fuga ma vicina a quella di andarmene; da Metz, da mio padre, da lei. Doveva esserci qualcos’altro al di là dei Vosgi, oltre alla Germania. Così mollai la presa e decisi di andarmene. Non da mio padre, non da Metz, da lei.
A People, ai progetti antiautoriali, ai collettivi dove nessuno sa la sua parte ma la suona lo stesso, alla bleep che non c’entra col gospel, alle realtà che si contaminano finchè una delle due smette di nutrirsi dell’Ego dell’altro; ecco a cosa stavo pensando, lo so, volevate saperlo.
Resto grato a Pauline per avermi accompagnato fin lì. È che la mia testa aveva iniziato a trasfigurare il suo viso in un via vai di gente; ricercavo una sagoma in cui potermi riconoscere e lei in quella folla non c’era. Io ad inscenare tramonti baritonali, lei a conficcare gli aghi di una voce brutta, a tutti i costi, in un software rilasciato per abbellire voci già intonate.
Non so quale sia il compromesso salvifico dell’intesa di un duo, quali gli imprevisti così potenti da disattivarla. È che quando si crea quel varco, mi riferisco a quello largo il giusto per farci entrare qualcun altro in segreto, allora solo un vero duo non si spezza. Sabrina non era che una cliente della boulangerie, non mi stava neppure simpatica. Sul finire della settimana prenotava una quiche lorraine da dividere in otto. Perlustrava il bancone insospettita, rinchiusa nel suo outfit dannatamente serrato, scontrino alla mano ripiegato in quattro e au revoir.
Quello che sto per dirvi non mi aiuterà di certo a ripulirmi del senso di colpa, ma è quando iniziai sistematicamente a dividere in otto la quiche lorraine che arrivò l’insight. Se è vero che le cose si dividono in giuste e sbagliate, l’unica azione sensata che potessi fare era smettere di baciare Pauline. Un po’ come la sfida tra la bocca di Justin Vernon ed il suo microfono.
Annaspando ma, ve lo assicuro, alla fine lo molla e si calma anche.
E se la fine della mia relazione con Pauline è stato uno smarrirsi in una foresta non sempreverde, un tramonto cui riesco tutto sommato ad esser grato, il crepuscolo della storia mia e di Sabrina aveva a che fare con lo zinco di cui erano sipide le aurore di Metz.
Arrivò un paesaggio, questa volta onirico, a svelarmi la natura di quell’attrazione nuova e scura. Parlo di un incubo ricorrente, che non vedeva protagonista Sabrina né la lana blu marino del suo paletot. La vidi spuntare al buio e mi spaventai, m’imbruttii tanto mi teneva sveglio. A tener la scena c’era la torbiera, piena di agglomerati ferrosi. Per abitudine si avvinghia alle radici sigillandole in un microambiente, intricata. È il frutto di parti morte depositate sul fondo, indifferente alla carenza d’ossigeno. Cresce spontanea, impersonale, asettica. Non ha pretese di nessun genere rispetto alla luce e arriva puntuale, come ogni autunno.
…continua…
(Antonia Salcuni)
IG: @eco_disco_gramma
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta