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Il regista Todd Haynes è noto per le sue rappresentazioni artistiche e romanzate dell’iconografia musicale: l’epopea glam-rock “Velvet Goldmine”, con personaggi modellati su Bowie e Iggy Pop, o “I’m Not There” dove sette diversi attori interpretano aspetti “fittizi” della personalità o della mistica di Bob Dylan. Entrambi i film contorcono la realtà con interpretazioni stilizzate, ma nessuno dei due prende nemmeno una frazione delle libertà che Haynes ha esercitato nel mediometraggio studentesco del 1987 “Superstar: The Karen Carpenter Story”. A soli quattro anni di distanza dalla morte per anoressia nervosa della cantante dei Carpenters, Haynes reinterpreta la sua storia in barbie dolls e quadretti lillipuziani di vita edipica, immaginando con una buona dose di ironia anni ’80 (l’unico decennio veramente post-moderno?) le cause familiari, sociali e culturali che plausibilmente hanno portato all’insorgere della malattia di Karen. “Superstar” ha comprensibilmente scatenato le angherie della famiglia Carpenter e la biopic fu di fatto querelata evitandone la distribuzione nelle sale televisive (una battaglia legale portata avanti con particolare tenacia da Richard Carpenter, dipinto qui come omosessuale), anche se questo non impedì alla pellicola di diventare presto un successo underground. Con pazienza e parecchie diottrie, è possibile guardare il film su Youtube in qualità pessima, sgranata e offuscata, ma viene periodicamente tirato giù per l’utilizzo illecito della musica dei Carpenters.
Dove “Superstar” pecca in accuratezza storica, recupera nel contestualizzare la figura di Karen Carpenter nel conservatorismo reazionario della presidenza Nixon, nella spettacolarizzazione crescente della società americana post-bellica, in un decennio ossessionato dal dimostrarci che ciò che appare “naturale” è culturalmente costruito. “I just want it to be perfect!” grida una Karen Carpenter in miniatura nella sua sala di registrazione – don’t we all? L’utilizzo di un cast composto interamente da bambole di plastica potrebbe risultare una mossa frivola, un modo per svalutare le figure femminili, ma Haynes ci porta ancora più vicini alla sua alienazione, al suo autocontrollo, lasciandosi indietro il melodramma caratteristico delle biopic con pretesa di verosimiltà a noi contemporanee. Il corpo di plastica serve da metafora per rappresentare l’internalizzazione dei sistemi di controllo, in primis edipici, ma anche relazionali, culturali, che porteranno Karen a digiunare. Karen Carpenter fa dell’anoressia una “tecnologia del sé”, quelle che il filosofo francese Michel Foucault definiva come tecniche di potere e auto-controllo mediante le quali il soggetto si auto-trasforma e riproduce, che trova sfogo qui in un digiuno minuziosamente calcolato. La schiacciante presenza di una Madre-Panopticon nella sua vita, le pressioni di una carriera costantemente sotto ai riflettori, facevano sentire Karen inferiore e impotente, guidandola verso l’unica cosa su cui aveva ancora controllo: il suo corpo. L’unica parvenza di autonomia che Karen poteva avere era attraverso quello che Haynes chiama un “fascismo del corpo”, esibendo la mentalità della perfetta anoressica. L’inferno di Karen scorre in orripilanti mise-en-scènes in miniatura che raschiano contro la colonna sonora dolce, melodiosa ma soprattutto malinconica dei Carpenters. Anche prima della sua morte, la voce di Karen Carpenter era quella di un fantasma.
Karen Carpenter è morta il 4 febbraio 1983. È irreale e inquietante ora come lo era allora. Non può peggiorare, non può migliorare. La sua morte le permette di rimanere in un tempo arrestato, proprio come voleva la sua famiglia, in uno stato di animazione sospesa, proprio come una bambola di plastica. Haynes intagliò con un coltellino la Barbie-attrice che la interpretava per rappresentare la sua figura emaciata, renderla più minuta, ridimensionata prima in una bambola di plastica e poi dagli schermi dei nostri computer. Distesa sul letto della sua camera in miniatura, fa sentire anche me più piccola.
(Viviana D’Alessandro)