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Nel loro quinto album Adam Granduciel e soci abbracciano melodie ariose e sabbiosi percorsi folk rock che guardano sia al classico sia al contemporaneo mantenendo la qualità delle composizioni a livelli alti, spesso davvero notevoli, e ampliando ulteriormente il proprio bagaglio musicale. Lasciando in parte penetrare l’ascoltatore al di là di quel Velo di Maya che avvolge i lavori migliori del gruppo, il punto di forza di I Don’t Live Here Anymore, come sempre accade con i War on Drugs, sta nella brillantezza e nell’efficacia del sound a cui la band di Philadelphia sa dare vita.
I Don’t Live Here Anymore è sin dal titolo una dichiarazione di poetica e un incitamento a non restare fermi a contemplare i propri fallimenti e i propri limiti. E sono proprio la musica e i testi, le parole così riconoscibili di Granduciel, a mostrarci la necessità di dedicarci a un incessante movimento attraverso i frammenti delle nostre esperienze, gradevoli e sgradevoli, drammatiche e gioiose, senza paura di ferirci e talvolta anche di impantanarci. “I’ll keep improving”, canta Granduciel in “Living Proof”, il brano che apre l’album, una scarica di adrenalina che diventa ben presto un tunnel di emozioni contrastanti e di recondite paure che il narratore prova a vincere. “I’m always changing”, arriva a dire, ammettendo però di essere “damaged”. La voce di Granduciel si fonde con gli strumenti e segue la corrente di un fiume impetuoso e secolare che non può più arginare.
Questo muoversi è fatto di luoghi più o meno precisi e di momenti più o meno definiti che si susseguono come improvvise epifanie consegnateci con cura, che appaiono e scompaiono rapidamente come luci in lontananza visibili da un’autostrada che si percorre rapidi. “I was born in a pyramid by an old interstate”, canta Granduciel in “Old Skin”, un turbinoso rock springsteeniano che dietro alla sua melodia apparentemente solare nasconde cupe riflessioni. Poi eccoci, in “I Don’t Live Here Anymore”, catapultati nel mezzo di un concerto di Bob Dylan, dove “we danced to ‘Desolation Row’”. Dylan era stato già citato all’inizio del medesimo brano, con il verso “a creature void of form”, tratto da “Shelter from the Storm”. La climax della title track esplode nei cori delle Lucius, che danno ancor più vigore al pezzo e al suo robusto arrangiamento. Siamo sospesi in un mondo dove il tempo sembra essersi fermato in “Rings Around My Father’s Eyes”, dolcissima ballata dalla melodia fragile e avvolgente: “How can I stay all day?”, si chiede Granduciel, sottolineando, poco dopo, che sta semplicemente “hiding the memory”, verso che riporta al centro del discorso l’incessante movimento che caratterizza l’album.
Dal punto di vista musicale, i War on Drugs ripartono da dove si erano fermati: A Deeper Understanding presentava, infatti, elementi simili, dalle scariche di chitarre accompagnate da sintetizzatori ben amalgamati a esse all’intenzione di ridurre quella patina di nebbia che avvolgeva strumentazione e voci sin dai tempi di Slave Ambients e dell’eccezionale Lost in a Dream. I punti di riferimento sono saldi e immutabili, da Bruce Springsteen a Bob Dylan, da Jackson Browne ai Wilco. La produzione, gestita da Granduciel e Shawn Everett, è come al solito magistrale e ricercata. Si attraversano decenni come si attraversassero secoli, e se non siamo di fronte al miglior album dei War on Drugs è proprio perché Granduciel e colleghi ci hanno abituati bene.
Nel marchio di fabbrica del gruppo, quel folk rock cantautorale così evidentemente figlio della più autorevole e pregevole tradizione americana, si innesta qui una svolta luminosa tesa a sottolineare ancor di più la semplicità e la delicatezza di alcune di queste melodie. Il locus amoenus di “Harmonia’s Dream”, elettrizzante e travolgente, vede abbacinanti synth dialogare con la chitarra solista di James Elkington mentre la voce di Granduciel si parcellizza nello spazio apertosi. Nell’infuocata “I Don’t Wanna Wait” basso e batteria rispondono con eleganza alle scariche distorte di chitarra. “All I’ve lost and all I’ve found, would you understand?”, canta Granduciel con un pizzico di malinconia e un goccio di cinismo, riprendendo un topos di tutta la produzione del suo gruppo, dicendosi da solo “You’re a prisoner of love”, mentre il cantato diventa una sola cosa con i suoni atmosferici e avvolgenti che lo circondano.
In questo vulcano continuamente vivo, Granduciel tiene le mani sempre salde sul volante. La concentrazione e la raffinatezza con cui la sua voce entra in “Change” mostrano tutta la sua convinzione: “I’ve been running from the white light / To try and get to you”, canta con voce ferma e pulitissima, un attacco strepitoso per un brano rock classico che aggiorna certi suoni Anni Settanta e li coniuga alla sfragìs dei War on Drugs, ossia riverberati arpeggi di chitarra, impetuosi e seducenti synth e batterie quasi sempre in controtempo a incalzare e ipnotizzare chi è all’ascolto. Il riff di piano di “Victim” rapisce sin dal primo ascolto, vigoroso e trascinante; su esso si innesta un approccio vocale nervoso, frammentario e springsteeniano all’ennesima potenza. “Honey, I’m a victim of my own desire / Who are you?”, canta Granduciel, con una sincerità spiazzante, senza paura di alcun giudizio altrui. A tutte queste domande e a quella sensazione di perenne instabilità e inadeguatezza che caratterizza quasi tutte le liriche del gruppo prova a dare qualche risposta “Occasional Rain”, una luminosa melodia pop rock uscita dai ‘90s, che esprime quel senso di smarrimento e di finitudine col quale ogni persona al mondo prima o poi deve scontrarsi: “Now I’m a stranger and I don’t know why / It’s killing me”, canta Granduciel, dimostrando che le poche certezze sono in realtà dei nuovi dubbi, paure millenarie che nessuno potrà sciogliere. “It’s only some occasional rain”, conclude, lasciando sfumare gli strumenti su queste ultime, semplici parole.
76/100
(Samuele Conficoni)