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Da giovincello ero molto scettico su quella che è definita “prima impressione” quando si conosce una persona: da buon razionale, la consideravo un elemento da cui non farsi influenzare, perché un essere umano mica lo conosci nei primi due minuti, perché ci sono diversi fattori esogeni che possono influenzare un tale giudizio, perché i rapporti umani non possono soggiacere a logiche “produttiviste” di economicità del tempo ecc. ecc., tanti ragionamenti appunto consci per cercare di smontare invece un sentimento inconscio ed irrazionale che, volente o nolente, esiste. “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” dice una massima che, come altre due milioni, è attribuita ad Oscar Wilde, e che invece pone l’accento su questa tendenza umana piuttosto diffusa. E che nel tempo – ammetto – ho imparato ad apprezzare sempre di più: sia perché con l’esperienza ci si becca maggiormente, sia per ragioni statistiche. Ho infatti riscontrato che gli atteggiamenti che una persona manifesta nei primi minuti in cui la incontriamo sono statisticamente quelli che di più la descrivono meglio perché tendenzialmente se uno è scontroso quasi sempre è probabile che lo sia anche in quei 5 minuti, così come è più probabile che lo sia rispetto a uno di carattere invece intimamente gioviale. Pura statistica. La percezione immediata, quella da cui non volevo farmi condizionare, si è rivelata nel tempo, sempre più spesso, quella giusta. Semplice constatazione empirica. La mia, ovviamente, non generalizzabile ma nemmeno da scartare a priori in quanto esperienza soggettiva.
E nella musica come funzione questa “prima impressione”? Anche qui verrebbe da dire che per conoscere (e valutare) bene un album è necessario ascoltarlo più volte (imperativo categorico per ogni buon critico), ma poi il tempo attuale di iperproduzione e velocità nel passaggio di ascolto da un disco all’altro ci porta sempre più a dare un giudizio approssimativo nell’immediato e autocondizionarci nel prosieguo, nel senso che magari si mette in disparte un album che non ci ha colpito molto che è stato soppiantato – nella nostra attenzione – dalla successiva uscita brand new.
E così è successo per me a proposito dell’ultimo lavoro solista di Damon Albarn, “The Nearer The Mountain, More Pure The Stream Flows”: il classico venerdì in cui si si ingorgano tutte le uscite, nello specifico lo scorso 12 novembre, l’ho immediatamente ascoltato una volta alla mattina presto per poi concludere – molto prematuramente (del resto era uno stato social…) – che era “un album ambientale e da piccola orchestrina sintetica, con tutta probabilità non al livello dei Blur, The Good the Bad & the Queen e del suo precedente solista, ma bentornato Damon. Canzoni migliori: “Polaris” e “Daft Wader””. Mi sono fatto prendere la mano, evidentemente dimentico che i due album che amo di più in tutta la mia vita mi lasciarono basiti i primissimi giorni e crebbero poco a poco dentro fino a diventare parte di me (sto parlando di “Disintegration” dei Cure e “Kid A” dei Radiohead).
Allo stesso modo è andata anche per “The Nearer…”: nonostante lo avessi accantonato, senza che me ne accorgessi mi sono trovato a tornarci su, come seguendo la voce di una sirena enigmatica, sempre più spesso. Forse anche per via del suo mood distaccato da contemplazione ambientale: probabilmente è l’album giusto al momento giusto, oggi che ci ritroviamo ancora una volta – purtroppo – in una fase di stasi pandemica le pennellate di Albarn guardando i vulcani islandesi, in un fulgido e dorato ritiro artico, si attanagliano meglio di altra musica al nostro sentore odierno, tra pianoforti spogli e musica ambientale da contemplazione. Ma probabilmente c’è di più: è un disco profondo, che si scopre solo immergendocisi dentro. Un po’ il contrario del suo esordio solista “Everyday Robots”, che parve stratificato fin da subito ma che alla lunga risultò un po’ difficile, mentre questo “The Nearer…” è una donzella da corteggiare a lungo ma che riserva grandi soddisfazioni.
Non c’è nessuna novità: bisogna concentrarsi sulla musica, che non può essere mai fruita di sfuggita e men che meno senza approfondimento, senza comprenderla appieno. Ma in questi tempi di streaming selvaggio è buona cosa ricordarcelo, e sono contento che me l’abbia rammentato Albarn.
In realtà più che un #my2cents volevo scrivere la recensione di “The Nearer…” ma ho atteso proprio perché mi mostrava sempre sfaccettature diverse che avevo paura di perdermi, e poi nel frattempo è uscita la recensione di Francesco Giordani su TristeSunset che dice già tutto, e ho desistito. Anzi, ancora più esaustivo era lo status su Facebook del Giordani nel presentarla, che non posso che riportare integralmente:
“Damon Albarn chiede aiuto ai Poeti e ci invita a tornare “alle cose stesse”, come dicevano i Sapienti, ovvero alla fonte di quello che siamo (sempre stati) e che ci è più proprio, lungo la sponda in cui il fiume, che sempre scorre dentro ognuno di noi, è più limpido e trasparente, se proviamo a rifletterci.
Per il resto Albarn si conferma un grande Inattuale e per questo un perfetto nostro contemporaneo. Come osservava Agamben (che al di là del disaccordo che ci divide, non rinuncio a citare): ‘La contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa’”.
Ecco cosa non avevo colto in “The Nearer…”, il suo essere inattuale e contemporaneo come doppia faccia della stessa medaglia. La prima impressione non me l’avrebbe mai fatto capire, ma in questo caso nemmeno il centesimo ascolto: c’è voluto il Giordani, che quando scrisse per Kalporz la prima volta mi parve da subito un filosofo gentile.