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Quando ero piccolo non volevo mai andare a dottrina (il catechismo, ndr), per preparare Comunione e Cresima. Ero strappato dai miei interessi primari, giocare a calcio, a palla avvelenata e disegnare piste automobilistiche sui marciapiedi.
Non capivo proprio il perché dovessi sottostare ad un supplizio del genere, sentire tutte quelle storie assurde della Bibbia, tutte quelle preghiere da imparare con aria contrita verso un tale chiamato Dio che non avevo mai incontrato e quando chiedevo ad altri se per caso lo avessero incontrato mi rispondevano di no, ma che comunque c’era. Delle volte era scritto perfino sui muri della città, Dio c’è, e io mi chiedevo come facesse certa gente ad essere così sicura senza mai avere avuto almeno un indizio. Se avessi già conosciuto la parola propaganda l’avrei chiamata propaganda.
È così, fondamentalmente spensierato e ateo, che arrivo vicino al mio dodicesimo compleanno e Andrea, il mio grande amico d’infanzia, di due anni più grande, una mattina mi dice che mi deve fare ascoltare una cosa. Vado a casa sua, in quella sala impregnata di alcol e sigarette, Andrea prende un disco da sotto lo stereo, lo mette sul piatto e parte “Love me do” e poi “Please please me” e poi ancora “From me to you”.
Quando finisce “From me to you” chiedo ad Andrea di rimetterla su e poi di nuovo e di nuovo.
Per almeno due settimane mi alzavo e andavo a scuola e in bici a perdifiato cantavo Da da da, da da dumb dumb da, Da da da, da da dumb dumb da e poi il resto come Celentano in “Prisencolinensinainciusol”. Quel disco era il primo disco dell’antologia rossa, con tutti i successi dal ’62 al ’66, chiesi a mio zio di regalarmela e lui arrivò anche con quella blu, dal ’67 al ’70 e con “Help!“, addirittura, un album del ’65. Mio zio mi voleva bene, Andrea mi voleva bene e come due esperti evangelisti mi fecero scoprire finalmente Dio, un Dio Quadricefalo che portava il caschetto e poi delle giacche sgargianti e poi ancora dei capelli lunghissimi e bellissimi che mi convinsero a portare i capelli lunghissimi e bellissimi e stare giorni interi ad ascoltare il Disco Bianco, “Revolver”, “Abbey Road”, “Let it be”.
Già, “Let it be”. C’ho messo qualche giorno a decidere se volevo veramente vedere “Get Back”, il documentario di otto ore che Peter Jackson ha tratto da decine di ore video e audio girate da Michael Lindsay-Hogg nel gennaio del 1969, ore dalle quali lo stesso Lindsay-Hogg estrapolò un docufilm di un’oretta e mezza scarsa intitolato “Let it be”, docufilm che tra l’altro vinse il Premio Oscar 1971 come migliore colonna sonora, e vorrei anche vedere.
C’ho messo un po’ a decidere perché i Beatles sono una fede e andare a vedere la fede mi pareva una mossa da pokerista sfacciato, come neanche Paul Newman sul treno della Stangata.
Vedere, sì, perché i Beatles li ho sempre Sentiti, Ascoltati: qualche video qua e là, i loro filmetti promozionali, va bene, ma i Beatles sono Sentire e Ascoltare, verbi che flirtano con la fede, con la propria intimità. I Beatles sono il conforto, il porto sicuro, il Golden Slumber, l’addormentarsi tra le braccia della Bellezza, che è una dea amicissima di quel Dio Quadricefalo, o forse anche di più, di un’amicizia.
Insomma ho ceduto, ho visto tutte le otto ore, mi sono immerso come un palombaro, ho visto, ho sentito, ho ascoltato. Ho visto quattro ragazzi di 28, 28, 26 e 25 anni provare e riprovare, li ho visti tirare fuori la Bellezza dal nulla, prenderla dall’universo, “Across the universe”, ho sentito i primi vagiti di “Get Back”, “Let it be”, “Old Brown Shoe”, “Don’t let me down”, “Jealous Guy”, “All things must pass”, è così che nascono le canzoni, vengono dal nulla, come i neonati, poi ci sono i neonati che diventano belli e altri che diventano brutti, chissà se sapevano, Macca, Lennon, Harrison, come sarebbero diventati quei neonati, forse non lo sapevano, anche se avevano già una carriera formidabile alle spalle, forse non lo sapevano ma avevano la forza di alimentarli, di dare loro il latte buono, ogni giorno e allora tutto diventava magnifico, bello, Bellezza.
Se provo a distaccarmi dalla mia condizione di credente, la lezione di queste ore passate con i Beatles è la lezione del talento che non deve essere lasciato solo a marcire, ma continuamente pungolato dalla disciplina e dalla ripetizione. E da una fede cieca nel farcela.
Tornando alla mia condizione di credente, sento quanto bene abbia riposto la mia fede e quanto questa mi seguirà finché avrò vita. Mica male.
Ps: Kalporz iniziò la sua ormai lunga vita pubblicando le recensioni di tutti gli album dei Beatles. Prima loro, prima Dio, poi tutti gli altri. Non lo dice anche la Bibbia?
(Max Cavassa)