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Pochi hanno fatto più del compositore Jérémy Labelle dell’isola La Riunione per elevare e unire i suoni distinti Maloya a una tavolozza contemporanea, spesso sperimentale. Una musica tradizionale, nata nel XIX secolo come un’effusione per il suffragio, i riverberi e il lamento della schiavitù che l’ispirazione di base – trovata solo sull’isola natale di Labelle – che ha dei collegamenti con la classica e con i ritmi dell’Oriente e il graffiante, ipnotico genere musicale del Marocco noto come Gnawa. Quest’ultimo può essere fortemente rilevato sia nella delicata e danzata “Giant”, sia nella suite sferragliante e cosmica che conduce a “Mes Mondes”. Non è una sorpresa scoprire che il venerabile stile marocchino funziona, dato che Labelle ha alzato di un quarto di tono la sua firma per fondere il Maloya.
Proibito come musica rivoluzionaria per la popolazione indigena della Réunion (composta per lo più da coloro che sono arrivati dal Madagascar e dall’atollo delle isole dell’Oceano Indiano) dalle potenze coloniali francesi (ancora una regione ufficiale della Francia che non ha mai raggiunto l’indipendenza), il Maloya è stato vietato fino al 1981. Uno dei due stili radicati più popolari dell’isola era tuttavia avvolto in rituali, suonato alle cerimonie religiose; visto come un’influenza occulta sgradita dai francesi. Qui è spinto come mai prima in una direzione quasi avanguardista, aumentato e soffuso di musica elettronica e trasformato oltre misura.
Labelle è noto per la trasposizione delle sue composizioni originali concepite in qualcosa di cosmico, universale e unico. Questo processo, che ha avuto lo stesso successo nei precedenti album acclamati dalla critica (“Éclat” segna il suo quarto album in studio vero e proprio), ha portato a un set altamente sperimentale di performance pre-pandemiche eseguite da un quartetto d’archi. Ciò che lo rende così distinto, però, è che ha deciso di rompere tutte le regole della composizione classica, scrivendo musica per un set-up tradizionale di una rock band ma facendola passare attraverso un ensemble da camera acustico-elettronico. Aggiungendo un altro strato al processo, il poliedrico produttore londinese, compositore, DJ e artista a pieno titolo Hector Plimmer rimodella, taglia e inserisce congrui effetti aumentati. I risultati mandano questa brillante suite di album verso il jazz e la techno senza mai perdere le sue radici post-classiche.
“Éclat” (o “scintilla”, anche se nelle mie ricerche con il traduttore è venuto fuori “brillare”) come il suo nome chiarisce suona quasi come la luce sopra la testa di Labelle improvvisamente accesa, provocando un sublime, struggente e contemplativo/riflesso contrappunto di Philip Glass. Max Richter, Nils Frahm, Simon McCorry e Kriedler.
Archi più sostenuti e riverberati e atmosferici letti sintetizzati sono stratificati con archi più corti e arcuati, snatches deformate e arpeggiatori pitter-patters. La musica d’ambiente trasdotta in sottili violini e violoncelli agitati ondeggia sotto gonfiori emotivi e momenti di vera intensità. Spesso questi strumenti ad arco si lamentano come una chitarra “elettronica” o suonano più come una sega arrugginita che morde il tessuto. Nell’accelerato “RON” quelle stesse corde sono avvolte in un vortice scarabocchiato; incanalate attraverso un buco nero in una ripresa all’orizzonte universale di serietà alla Glass.
Questo disco è incredibile: è già uno dei miei highlights del 2022. La tradizione Maloya e il classico sono rimodellati in una cosmologia di fusione che si espande sempre più. “Éclat” è dinamico, emotivo e fresco come gli album precedenti, se non il più sofisticato e interessante ancora.
(Dominic Valvona)
Few have done more to both elevate and wed the distinct sounds of Maloy to a contemporary, often experimental, palette than the Réunion Island composer Jérémy Labelle. A traditional music, born in the 19th century as an outpouring for the suffrage, reverberations and lament of slavery that core inspiration – only found on Labelle’s island home – makes connections to the classical and to the rhythms of the East and the scratchy, hypnotic musical genre of Morocco known as Gnawa. The last of these can be strongly detected o both the dainty danced, retuned ‘Giant’ and the rattled and cosmically bandy suite it leads into, ‘Mes Mondes’. It’s no surprise to find that Moroccan venerable style works, as Labelle pitched up his signature Maloy fusion a quartertone to match it.
Forbidden as the entwined revolutionary music for Réunion’s indigenous population (mostly made up of those who arrived from Madagascar and the Indian Ocean’s atoll of islands) by the French colonial powers (still an official region of France that never achieved independence), Maloy was banned right up until 1981. One of the island’s two most popular ingrained styles it was nevertheless wrapped up in rituals, played at religious ceremonies; seen as an unwelcome occult influence by the French. Here it’s pushed like never before into an almost avant-garde direction, augmented and suffused with electronic music and transformed beyond measure.
Labelle’s known for transducing his original conceived compositions into something cosmic, universal and unique. That process, which was likewise successful on the previous critically acclaimed albums (Éclat marks his fourth studio album proper), led to a highly experimental set of pre-pandemic performances performed by a string quartet. What makes it so distinct though was that he set out to break all the rules of classical composition, writing music for a traditional rock band set-up but running it through an acoustic-electronic chamber ensemble. Adding another layer to the process, multifaceted London producer, composer, DJ an artist in his own right Hector Plimmer reshapes, cuts and put’s in congruous augmented effects. The results send this brilliant album suite towards jazz and techno whilst never losing its expletory post-classical roots.
Éclat (or “spark”, though in my translator searches it came out as “shine”) as its name makes clear sounds almost like the light above Labelle’s head suddenly switched on, prompting a sublime, yearning and pining contemplative/reflected counterpoint of Philip Glass. Max Richter, Nils Frahm, Simon McCorry and Kriedler.
More sustained, reverberated strings and atmospheric synthesized beds are layered with shorter, arched bows, warped snatches and arpeggiator-like pitter-patters. Ambient music transduced into subtle stirred violins and cellos undulate beneath emotive swells and moments of real intensity. Often these bowed strung instruments wail like an electronic guitar or sound more like a rusty saw biting into the fabric. On the quickened ‘RON’ those same strings are enveloped within a scrawled vortex; funneled through a black hole into a universal horizon reprise of Glass-like seriousness.
This record is incredible: already one of my highlights of 2022. The Maloy tradition and the classical are remodelled, sent out into an ever-more expansive cosmology of fusions. Éclat is every bit as dynamic, emotive and fresh as the previous albums, if not the most sophisticated and interesting yet.
The Monolith Cocktail è un blog indipendente con base a Glasgow, Scotland (UK).
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