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Matrix Reloaded e Matrix Revolutions diciannove anni dopo: ovvero, provare a ridiscutere la valenza filmica dei chiacchierati (e fraintesi) sequel di Lana e Lilly Wachowski
Reloading Matrix
Quando nel 1994 Joel Silver si ritrovò tra le mani lo script di Matrix ne intuì immediatamente il potenziale così come le ingenti criticità produttive. Del resto, gli incassi per la fantascienza distopica del 1995 (Strange days, Johnny Mnemonic, Waterworld) non furono esattamente esaltanti. Per Lilly e Lana Wachowski (ieri Andy e Larry) – fresche aggiunte della scuderia Warner Bros al battesimo di fuoco come sceneggiatrici (Assassins) – quella di Matrix rappresentava l’opportunità giusta con cui esordire alla regia. Non era dello stesso avviso Silver. Pur apprezzandone la valenza filmica e la complessità tematica riteneva Matrix un’opera rischiosa per un esordio. Consigliò loro di farsi le ossa con un’opera prima di rodaggio (Bound – Torbido inganno). Manco a dirlo ebbe ragione: ancora una volta.
Tre anni e una lavorazione decisamente complicata dopo Matrix fece la storia segnalando le Wachowski come nuove stelle emergenti del cinema mondiale. Qualcosa di cui era ben consapevole la Warner che aveva perfino dato loro carta bianca per l’adattamento di Batman: Year One di Frank Miller. Non se ne fece niente – spianando indirettamente la strada a Batman Begins di Christopher Nolan un paio di anni più tardi – soltanto per volere delle Wachowski. Tanto era forte il richiamo di Matrix da rendere “impossibile” qualsiasi altro progetto. Sotto il codename The Burly Man (lo stesso usato da Joel ed Ethan Coen per Barton Fink – È successo a Hollywood) prese così forma l’idea dei sequel (Matrix Reloaded, Matrix Revolutions) con cui far crescere e stratificare la propria creatura narrativa. Sin da subito, però, si avvertì che qualcosa non quadrava. Tanta era la pressione addosso che le Wachowski imposero per contratto di non rilasciare interviste nel pieno della doppia lavorazione.
Un’incertezza che fece eco nelle previsioni di incasso. E non soltanto perché le due opere furono distribuite al cinema a distanza di mesi anziché di settimane come previsto nei piani originali. Tra i 742 milioni di dollari al botteghino del secondo capitolo e i 427 milioni di dollari del terzo infatti c’è un baratro economico figlio di aspettative disattese. Quelle di chi ritiene ancora oggi Matrix Reloaded e Revolutions opere “infelici e traditrici” dell’idea originaria. Ma è davvero possibile parlare di incoerenza nel trattare analiticamente le prime ramificazioni seriali della creatura narrativa delle Wachowski?
È complesso Matrix. Parte dai concetti di “simulazione” e “iperrealtà” teorizzati da Dick (ripresi a loro volta dalle Meditazioni metafisiche di Cartesio) ricalibrandoli narrativamente in chiave cyberpunk secondo l’accezione del Neuromante di Gibson. Un insieme di suggestioni abilmente mescolate dalle Wachowski in un processo di world-building di circa un’ora e venti di minutaggio con cui dar vita ad un intero mondo straordinario popolato di colorite allusioni all’immaginario fiabesco di Alice nel paese delle Meraviglie, alla cristologia dell’arco narrativo del suo eroe protagonista, nonché a profonde riflessioni esistenziali sul destino e il libero arbitrio. Dall’inizio del terzo atto però Matrix muta diametralmente la propria inerzia narrativa.
La componente filosofica da fantascienza “alta” dei primi due atti lascia il posto a puro e crudo cinema da combattimento di chiara ispirazione cantonese dal linguaggio filmico sperimentale e accattivante (bullet time). Un ribaltamento dell’inerzia netto ma armonico nel suo squilibrio che nei successivi Matrix Reloaded e Revolutions trova terreno fertile dallo smisurato potere narrativo. Le Wachowski finiscono infatti non soltanto con il consolidare e arricchire la componente action di sequenze sempre più adrenaliniche e computerizzate, ma anche con il giocare con la mitologia di Zion in una progressiva decostruzione del mito di un Neo sempre più demitizzato ma non per questo meno speciale e super-umano.
Intenti artistici giocosi e sovversivi che trovano infine potenziamento di senso in quel Matrix Resurrection che a quasi vent’anni dalla trilogia originale destruttura il concetto stesso di sequel di Matrix in un dissacrante e autoironico processo di meta-linguaggi finendo con il semplificare l’elevata matrice narrativa del racconto in un fiabesco ricongiungimento reso possibile solo grazie al potere dell’amore: unico e solo motore dell’Universo.
Poco importa quindi se sia fantascienza alta, adrenalinico cinema da combattimento, o rom-com fantascientifica autocitazionista. Non è la cornice narrativa il nostro riferimento per provare a comprendere l’interezza del corpus Matrix. L’unica coerenza rilevante da prendere in considerazione – e in questo i successivi Cloud Atlas, Jupiter – Il destino dell’Universo, e Sense 8 ne sono ancora più emblematici – è invece relativa alla visione artistica delle Wachowski: stratificata, mutevole, imprevedibile, e proprio per questo unica nel suo genere.
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