Share This Article
E venne il momento anche di “Toy”: il disco incompiuto, cancellato e bootlegato di David Bowie.
Un lavoro concepito nell’autunno 2000 dopo due eventi importanti per l’artista londinese, il VH1 Storytellers e lo slot da headliner a Glastonbury; in particolare nella scaletta della prima delle due esibizioni – su suggerimento del chitarrista Reeves Gabrels, poi licenziato – Bowie inserì un brano misconosciuto del 1966, “Can’t Help Thinking About Me”. Quindi decise di tirare fuori dal cassetto il repertorio degli esordi mod e rhythm’n’blues per dargli una nuova veste; gli anni novanta erano stati intensi e creativamente fertili (apice “1.Outside” del 1995, con Brian Eno) e dopo Glastonbury si era trovato a corto di nuove idee. Perchè allora non coinvolgere gli amici e musicisti più fidati? Dentro il chitarrista Earl Slick, già con John Lennon, il tastierista Mike Garson – che ultimamente ha suonato con St. Vincent – e soprattutto Tony Visconti, che resterà con Bowie fino a “Blackstar”.
Detto dell’antefatto, entriamo nel merito del disco. Le registrazioni originarie erano su 4 tracce e di queste alcune non avevano neppure la dicitura Bowie, uscendo come Davie Jones with the King Bees (“Lazy Jane”) o The Lower Third per la stessa “Can’t Help Thinking About Me”. Si voleva catturare l’energia di Glastonbury e a pubblicare il risultato nei primi mesi del 2001, così le nuove versioni si riempiono di arrangiamenti sofisticati, chitarre acustiche addizionali, violini e fisarmonica portati da Lisa Germano…e il tocco di Visconti dove occorra. Qui è da citare subito il brano più riuscito ed emozionante: “Conversation Piece”, originariamente del 1970 (periodo “The Man Who Sold the World”), ne esce ariosa nella sua natura confessionale con gli elementi orchestrali al posto giusto. Anche “I Dig Everything” è degna del miglior Bowie, spinta dai chorus di Holly Palmer e Emm Gryner e musicalmente nella tradizione heartland-rock americana; non a caso è posta a inizio raccolta. Ci sono invece pezzi più noti quali “The London Boys” che non distingui dal materiale di “Hours” e “Hole In The Ground” davvero vicina alle sonorità dei Roxy Music di “Avalon” quando non del Phil Collins solista. “You’ve Got A Habit Of Leaving” è oggi il singolo di lancio: ma quanto suona più rude e fascinoso, l’originale datato 1965? A un passo dai “Nuggets”, salvo la voce imberbe.
Scorrono dodici canzoni (iper-prodotte) dove troviamo le soluzioni più varie, dall’harpsichord in “Karma Man” costruita per le radio alle brusche accelerazioni di “Let Me Sleep Beside You”; la produzione di “Silly Boy Blue” è nello stile di Todd Rundgren per “Bat Out Of Hell” laddove per “Can’t Help Thinking About Me” scomoderei…Phil Spector. “Shadow Man” è stata ripescata dalle session di “Ziggy Stardust”, mentre la title track vira su un funk pianistico à la “Young Americans”. Quasi incomprensibile che la Virgin non lo fece uscire al tempo; aveva tutte le carte in regola per dominare le classifiche, però subentrarono anche le vicende personali di David – la nascita della figlia, la morte della madre – che nel frattempo stava già iniziando a scrivere “Heathen”.
“Toy” resta un affare da completisti, se preferite un interessante documento storico. Tuttavia con molte delle canzoni già rilasciate come b-sides o inserite in compilation, la raccolta finisce per essere una mera operazione commerciale per fare ordine nella frastagliata discografia del nostro: si contano su Discogs ventidue versioni non ufficiali dell’album di cui sette nel 2011, e non ce n’è una uguale all’altra. Difetto (o pregio?) aggiuntivo di quest’ultima edizione, ci si becca altri due dischi con overdubs, alternates e unplugged per due soli pezzi in più, “Liza Jane” e “In the Heat Of The Morning”, reperibile nella Deram Anthology. Un solo cd con queste aggiunte ci sarebbe bastato.
64/100
Foto dal libretto di “Toy” di Frank W. Ockenfels III