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Trovandosi a ripensare alla storia del rock (e della musica leggera in generale), è sempre doveroso e necessario ricordare come questa forma artistica abbia forse toccato la sua massima espressione nella prima metà degli anni ’70 in Germania.
Gruppi come i Kraftwerk, i NEU!, Can, Amon Duul, Tangerine Dream e altri mostrarono al mondo una dimensione del rock che viaggiava parallelamente insieme a tutti gli stile progressive-related: oltre al tecnicimo inglese, la ruralità francese, il classicismo italiano esisteva anche la musica cosmica tedesca.
Quelle che i krautrocker propongono al loro pubblico è una forma di minimalismo psichedelico, litanie scandite da pattern ritmici ripetitivi e tanta voglia di esplorare nuove frontiere del suono elettrico e, spesso, elettronico. Queste formazioni tedesche infatti sono state tra le prime a sperimentare in chiave pop le potenzialità di sintetizzatori e strumenti elettronici (non a caso, la nostra lista più sopra partiva con gli imprescindibili Kraftwerk) creando un sound altamente riconoscibile e che nessuno è più riuscito a riprodurre con gli stessi risultati.
Tra i vari nomi di spicco del ‘movimento’, oltre ai sopracitati, non possono mancare i Popol Vuh. Il gruppo, famoso anche per le meravigliose collaborazioni con il regista Werner Herzog (Nosferatu, Aguirre, Fitzcarraldo e L’enigma di Kaspar Hauser presentano dei lavori musicali dei nostri), ci offre uno degli esempi più particolari di quello che fu il suono del krautrock.
Partiti sperimentando in tempi non sospetti i suoni del sintetizzatore Moog, strumento principale del sorprendente debutto discografico “Affenstunde” (1970) e del successivo, magistrale, “In Der Gärten Pharaos” (1971), dove alla ricerca di suoni sintetici e d’ambiente si accompagna una psichedelia rimaneggiata e già matura, in un dialogo/scontro tra le tastiere di Florian Fricke e Frank Fiedler e le percussioni di Holger Trulzsch.
Oltre alla ricerca e alla psichedelia, l’elemento centrale della musica dei Popol Vuh è altro: il sacro. Sempre dense di una tensione verso l’alto, le composizioni dei Popol Vuh si avvalgono di molte ispirazioni; dalla musica indiana, a quella africana e oltre, il suono del trio di Monaco si può definire fuori dal tempo come da una definizione spaziale precisa, a metà tra il reale e l’onirico.
Procedendo in questa direzione, gli studi sulla musica sacra di Fricke porteranno a quello che, a detta di alcuni, è il capolavoro dei Vuh: “Hosianna Mantra” (1972). Tentativo di stabilire un legame tra il misticismo indiano e quello europeo-cattolico, “Hosianna Mantra” implica anche un decisivo cambio di rotta per la band tedesca. Via i sintetizzatori e i suoni elettronici, ritenuti non appropriati per la ricerca intrapresa dai Vuh, in favore di un’orchestrazione che vede oltre al solito organo di Fricke (che qui suona anche il clavicembalo e pianoforte) chitarre elettriche, violini, oboe, una voce di soprano e la tambura, strumento di origine indiana già presente nel precedente “In Der Gärten Pharaos”.
Fortemente sentimentale, “Hosianna Mantra” è uno dei classici dischi che cade nella trappola del troppo: troppo complesso, troppo pesante, esagerato nel suo cercare punti di contatto tra realtà distanti (come tra l’induismo e il cristianesimo, quello tra la musica colta e il rock). “Hosianna” è però un album che ha come tema centrale quello della spiritualità e del misticismo, ovvero dell’esperienza diretta del divino. Esperienza che la nostra tradizione culturale ha effettivamente sempre messo in relazione alla sensazione di sopraffazione, di essere schiacciati da una forza onnipresente e onnipotente.
Dopo l’introduzione (“Ah!”) e il “Kyrie”, forma musicale presente in ogni avvio di messa cristiana, arriva la title track, brano centrale e fondamentale del disco quanto della ricerca dei Popol Vuh. Infatti è qui che Fricke riesce a unire questi mondi distanti, guidato dal suo pianoforte e dalla chitarra di Conny Veit degli Amon Duul. Come ebbe a dire proprio il leader dei Vuh: “smore che si fa musica”.
Gettarsi dove la musica ci porta, sia come ascoltatori che come esecutori. Una “grande messa”, per tornare a citare Fricke. Non è forse questo quello che abbiamo sempre cercato dalla musica?
Matteo Mannocci