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È solo retromania? Può darsi. Può darsi anche che il citatissimo libro di Simon Reynolds dopotutto un merito ce l’abbia: quello di dare un nome alla necessità di sbirciare continuamente nel passato, di spulciare tra gli scaffali dell’usato dei negozi di dischi alla ricerca di qualche perla nascosta, di quell’album fino a quel momento sconosciuto, ma che da lì in poi diventerà imprescindibile. Forse c’è anche un po’ di mancanza di coraggio in questo atteggiamento. Paura del nuovo, qualcuno la chiamerebbe. Ma, se tanti appassionati ancora si dedicano a questa attività, un motivo ci sarà.
Il nome dei Camper Van Beethoven dovrebbe dire qualcosa agli appassionati di alternative rock, anche solo per la canzone “Take The Skinheads Bowling”. La band di David Lowery da molti è considerata tra i pionieri di un certo tipo di indie, capace di mischiare punk e folk ad influenze “etniche”, all’epoca d’avanguardia, senza perdere mai il proprio piglio giocoso e catchy. In pochi però si ricordano della successiva creatura del musicista americano, i Cracker.
Anche negli States Lowery è probabilmente più famoso per la seconda parte della sua carriera, non solo artistica: compositore di colonne sonore, produttore, docente di music business all’Università della Georgia, fiero difensore delle royalties dei musicisti (con al suo attivo la vittoria di due class action contro colossi come Napster e Spotify). Eppure “Kerosene Hat”, il secondo album dei Cracker, ha davvero tutto per giocarsela con il top della gamma in quanto a rock primi anni ’90. All’epoca della sua uscita, nell’agosto del ‘93, il disco si piazzò anche piuttosto bene nelle varie classifiche di Billboard, trainato in particolare al singolo “Low”. Ecco “Low”, messa nelle cuffie oggi, riporta in piena epoca grunge, un periodo musicale e culturale già ampiamente raccontato, recuperato, rivisitato, e di nuovo archiviato. Perché spenderci altro tempo allora?
Beh, perché la canzone è una bomba ad orologeria, uno di quei rari pezzi capaci di trovare un perfetto equilibrio tra strofa e refrain. Da cantare subito, memorizzare dopo poco, e scordare mai. Provare per credere. E “Kerosene Hat” è pieno di pezzi così. Nascosta alla traccia numero sessantanove troviamo “Euro Trash Girl”, ballatona sulla vita da backpacker, diapositiva dei tempi in cui non si poteva contare ancora su Lonely Planet o Google Maps, quando comitive di giovani americani passavano mesi a zonzo per l’Europa, dormendo nelle fontane svuotate, costretti a donare il sangue per pagarsi il prossimo biglietto InterRail. Inutile dire che anche la storia sul bizzarro titolo dell’album pesca appieno da questo immaginario. L’ Hat era infatti il berretto di lana che Lowery doveva infilarsi per camminare al freddo fino alla più vicina stazione di benzina per comprare il kerosene, necessario per caricare le due stufette che servivano a scaldare la casa occupata abusivamente in Virginia, insieme al chitarrista Johnny Hickmann. Anche la registrazione del disco avvenne in circostanze non ortodosse, ossia in un ex fienile situato in una sperduta località californiana, un tempo usata come set di film western. Pare che i muri avessero buchi ovunque, buchi che la band fu costretta a tappare con dei materassi, affinché il suono non si disperdesse. Insomma, leggenda metropolitana o meno, la storia di “Kerosene Hat”, merita senza dubbio di essere riscoperta e la musica dell’album riascoltata. Non solo perché non è invecchiata di un giorno, ma perché ha dentro di sé le radici di quel rock che oggi non si trova in giro così facilmente. Quello che racconta con schiettezza storie che non ci si stanca mai di ascoltare. Come quella del poliziotto della bellissima “Movie Star”, che invecchiando ha scelto di portare ordine nelle strade, ma che in realtà…«deep inside we all knew he felt differently, we all knew he was an anarchist!».
(Stefano Solaro)