Share This Article
Una fotografia può dirci qualcosa di una persona, anche se non la conosciamo. L’immagine di copertina del disco omonimo di Lou Bond (vero nome: Ronald Edward Lewis), autore di un unico album per la We Produce (etichetta sussidaria della Stax Records) nel 1974, parla, è uno scatto che racconta una storia: chitarra in spalla e via andare, vagabondando in lungo e largo. Tutto comincia pressappoco quando Bond, quasi sempre in affido a famiglie religiose, ad undici anni convince l’assistente sociale a farsi comprare una chitarra acustica perché era incuriosito dai ragazzi che suonavano in chiesa*(1). Negli anni a seguire, senza mai avere un posto da poter chiamare casa, girovaga per gli USA: Chicago, Memphis e New York sono le mete più importanti e Bobby Miller, Sidney Barnes (Rotary Connection) sono le due figure che lasciano il segno. Il primo fa pubblicare a Bond un sette pollici per la Fontana Records e lo fa lavorare poi come autore alla Chess Records; il secondo è una sorta di mentore per il musicista Bond che sembra non riuscire a trovare la propria strada*(2). “Prendevo un biglietto dell’autobus e finivo a New York o sulla West Coast, solo io e la chitarra” racconta l’artista ad Andria Lisle nelle liner notes del booklet della ristampa del disco della Light in The Attic. Il primo e ultimo album di Bond, pubblicato per la We Produce Records (sussidaria della Stax), non può che non suonare quindi come un miracolo. Fuori dal mondo, per certi aspetti: la voce graffiante (a tratti), il tocco chitarristico delicato di un vagabondo musicale come Bond vengono sublimati dal tono quasi etereo degli arrangiamenti d’archi di Lester Snell eseguiti dalla Memphis Symphony Orchestra, con in più la sezione di fiati della Horns of South Memphis a completare la tavoletta dei colori sonori (si senta “Come on Snob”). La bellezzasi è negli opposti che si attraggono (folk acustico e orchestrazioni), nel restare sempre fedeli a se stessi e alla propria anima da “folk singer” più che da (cant)autore soul mettendo a nudo nelle canzoni le proprie opinioni, riflessioni («I might give out/But I’ll never give in» è l’intro combattente di “To the Establishment”), idee e visioni socio-politiche sul (e del) mondo*(3) e riuscendo a reinterpretare i brani scritti da altri in chiave personale (“Lucky Me” di Jimmy Webb, “Let Me Into Your Life” di Bill Withers, “That’s The Way I’ve Always Heard It Should Be” di Carly Simon e Jacob Brackman). Con il contratto con la Stax per una volta nella vita di Bond sembra tutto perfetto, o quasi: l’illusione dura poco.
Per problemi di distribuzione della Stax con la CBS il disco è sostanzialmente un insuccesso commerciale e il musicista ritorna a vagare senza meta (Los Angeles, San Diego, Atlanta…) lottando contro la depressione e la dipendenza da droghe e alcol, anche se negli novanta/duemila la sua “To the Establishment”, quello che può essere considerato il suo capolavoro, viene campionata da Outkast, Prodigy (Mobb Depp) e nel 2010, tre anni prima della sua morte, la Light in The Attic ristampa “Lou Bond”.
*(1) “Quando avevo circa nove anni, vivevo con i Relford, e tutti quei ragazzi suonavano la chitarra in chiesa. Le mie orecchie si sono davvero drizzate!” – Lou Bond nelle liner notes della ristampa Light In The Attic
*(2) “Lou era un grande artista. Il suo problema linguistico poteva essere una delle cose che lo trattenevano ma una volta che l’ho sentito cantare, per me non aveva importanza. Le cose non hanno funzionato per lui, ma non hanno funzionato per molte persone brave e di talento a Chicago in quel periodo” – Sidney Barnes Lou Bond nelle liner notes della ristampa Light In The Attic
*(3) «I protestanti e i cattolici/dovrebbero essere così religiosi e profondi/ma laggiù in Irlanda/e si bruciano le case a vicenda» (originale: «The Protestants and Catholics/They’re supposed to be so religious and profound/But they’re over there in Ireland/And they’re burning each other houses down» – estratto da “Why Must Our Eyes Always Be Turned Backwards”
(Monica Mazzoli)