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Una delle uscite discografiche più attese di questo inizio 2022, “Live at the Village Vanguard II” degli storici Steve Coleman and Five Elements, ci porta a ripensare alla storia della fusione tra due generi musicali che, per la loro multiculturalità e capacità di lasciarsi contaminare, sono da considerarsi dei veri e propri riflessi della società postmoderna: il jazz e l’hip-hop.
Le origini della storia di questo incontro fra generi viene fatta coincidere da molti esperti con il momento in cui Charlie Parker impugnò un sassofono per dare vita insieme a Dizzy Gillespie a quel fenomeno definito come rivoluzione bebop e che, sintetizzando al massimo, mette fine alla ballabilità della musica jazz (l’era di Duke Ellington) e la apre a nuovi generi e stili comunque afferenti alla cultura nera afroamericana.
Nel corso del Ventesimo secolo e nei primi decenni del Ventunesimo, saranno tanti i momenti cruciali della fusione fra jazz e hip-hop: dalle ibridazioni fra swing jazz e slam poetry di Cab Calloway negli anni ’30 a “Change the Guard” dei su citati Steve Coleman and Five Elements, passando per le sperimentazioni rap di Miles Davis nel postumo “Doo-Bop” (1992) e per l’hip-hop contaminato dei vari J-Dilla, D’Angelo, Lauryn Hill fino ai più recenti Kendrick Lamar e Robert Glasper.
Uno dei momenti che ci sembra più significativi è rappresentato però da un disco e in particolare da una canzone che ha determinato il punto di contatto più fisico ed esplicito mai intercorso fra questi due mondi musicali: ci riferiamo al brano “Verses from the Abstract”, contenuto nel leggendario album “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest, altra band seminale quando parliamo di contaminazione fra jazz e hip-hop.
Siamo nel 1991. “Verse from the Abstract” è una canzone rivoluzionaria per il sound minimalista, i loop costanti di bassi, i controcanti al coro di Vinia Mojica, i campionamenti jazz. Da segnalare anche il sinuoso simbolismo del testo, con il quale gli ATCQ vanno oltre i soliti temi donne-droga-denaro del rap old school (“The world is kinda cold and the rhythm is my blanket”).
Ma ciò che più impreziosisce il pezzo è il contributo fondamentale di Ron Carter, uno dei contrabbassisti jazz più virtuosi e autorevoli della musica contemporanea, che si unì a Q-Tip, a Phife Dawg, a Jarobi White e ad Ali Shaheed Mouhammad per dipingere il giro di contrabbasso abissale che avvolge l’intero struttura sonora del brano.
L’importanza di quell’incontro è esplicitata dallo stesso Q-Tip, che nell’ultima strofa della canzone dedica un ringraziamento speciale a Carter: “Yeah, yeah, yeah, yeah, yeah, yeah, yeah / And this one goes out to my man / Thanks a lot, Ron Carter on the bass / Yes, my man Ron Carter is on the bass / And check it out, going into the ’91 decade / Up in until the 2000 decade / You gotta say the Quest is on / And goddamn it, yes the Quest is on / And we out!”.
Anni dopo lo stesso Ron Carter confidò nel corso di un’intervista che non fu facile coinvolgerlo in quel progetto: accettò di collaborare solo con la promessa che gli A Tribe avrebbero ripulito il loro linguaggio da strada (“Listen, you gotta stop using this cursing language with the drugs. I don’t do that, and I will be gone before you can spell the word exit”). Tutto il disco fu poi in realtà incentrato su tematiche sociali reali, e questo elemento fu alla base della capacità di “The Low End Theory” di dare forma all’hip-hop alternativo degli anni ’90 e a gran parte della musica dei decenni successivi, compresa quella che va per la maggiore ai giorni nostri.
(Emmanuel Di Tommaso)