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Per quanto possa risultare pretenzioso pensare al parallelismo psicofisico spinoziano ascoltando un album pop, Jenny Hval mi è sempre sembrata un’artista di materie e sostanze. Da lavori come “Apocalypse, Girl” (2015) e “Blood Bitch” (2016) centrati sulla sessualità, i corpi e la femminilità, al più – velatamente – metafisico “The Practice of Love”, Hval ha fatto della sua musica veicolo per gli accidenti, gli affetti. Una carriera artistica riassumibile nell’assioma secondo cui: “tutto ciò che è, è anche in altro”. O, nelle parole di “Classic Objects”: “when I listen deep I am not my owner – maybe I never was”. Arte more geometrico demonstrata.
Una proposta di matrimonio fra la folla durante un concerto a Parigi nel 2019 è il seme da cui è germogliato quello che Hval descrive come “la sua versione di un album pop”, spettacolo rivale codificato da anni di civiltà occidentale. Un evento del tutto ordinario è momento di conflitto per un’artista che si è interrogata così tanto sulla posizione che le donne hanno occupato in società. La convenzionalità di quel gesto diventa per lei turbante, e offre un ottimo punto di partenza per una riflessione vivida su cosa significa essere un’artista e centrare la propria identità su questo processo artistico stesso:
But in the year of love
I signed a deal with patriarchy
Now watch me step
Into the place where you can see me: look at mе
Ci troviamo di fronte a un altro lavoro di “pandemic art”, progetti artistici che sono nati o sono stati influenzati in modo significativo dalla pandemia e che tendono ad avere per forza di cose un approccio più riflessivo e solitario. In “Classic Objects”, l’interrogazione sul patriarcato matura e ingloba la produzione artistica, si ci chiede se questa non sia altro che un sofisticato ma inutile meccanismo con il quale si riveste il sé e se sia necessario ritornare alla materia grezza, per così dire. Ne deriva un album di storie semplici, anche se “semplici” è un aggettivo da prendere con le pinze, come ci ricorda giustamente Hval. Proprio come i suoi lavori precedenti, “Classic Objects” è un labirinto di riferimenti, che spaziano dalla filosofia francese, l’installazione danese “Prada Marfa” nel deserto texano, o la nota pellicola di Dreyer “La Passion de Jeanne d’Arc”. Eppure nel suo citazionismo riesce a rimanere molto concreto, ancorato in modo altrettanto forte al quotidiano. È un disco che danza fra il personale e il politico in melodie leggere e decise, che pensano ma soprattutto sentono. In tempi complessi, lo smarrimento della propria identità artistica ha come risposta un pop che è ordinario nel miglior modo possibile.
80/100
(Viviana D’Alessandro)