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Nel 1999 la Volkswagen mandò in onda un servizio pubblicitario per la promozione della nuova all’epoca Volkswagen Cabriolet, “Milky Way”. Di pubblicità di auto così oggi se ne vedono tante, ma fu proprio la casa automobilistica tedesca a introdurre il copione zero: un viaggio solitario in auto lungo una silenziosa stradina, magari di montagna. In lontananza, viene inquadrata la luna e in sottofondo, come colonna sonora agli sguardi di due adolescenti infatuati, c’è “Pink Moon” di Nick Drake. Lo spot della Cabriolet, diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris, portò a un forte aumento delle vendite del disco, rivoluzionando l’utilizzo della musica popolare in pubblicità.
Ho riportato questo aneddoto perché “Pink Moon” è a tutti gli effetti un disco postumo, nonostante sia stato pubblicato per la Island Records quando Drake era ancora in vita. Sbocciò improvvisamente, come l’arrivo del fiore rosa di muschio, un fiore spontaneo e campagnolo che ricopre prati e valli di colore rosa annunciando l’arrivo della primavera, simboleggiato dalla luna nel disco. Terzogenito dopo gli insuccessi di “Five Leaves Left” e “Bryter Layter”, “Pink Moon” sembrava predestinato alla medesima sorte. A ben vedere, le condizioni non erano ottimali: Nick Drake era afflitto da una gravissima depressione che lo costrinse a ricoverarsi in un ospedale psichiatrico e che due anni dopo, nel 1974, lo portò via. “Pink Moon” diventò col tempo una pietra miliare del folk britannico, costellato di metafore e richiami alla natura, parlato con vocazione ermetica ma abbastanza intimista da non risultare pretenziosa. Forse il successo di “Pink Moon” a metà anni ’70 è da attribuire, oltre che alla prematura morte dell’autore, a un forte contrasto con le tendenze culturali dell’epoca. Non che il folk mancasse di ammiratori (solo un anno prima Joni Mitchell aveva pubblicato il suo “Blue”), ma si respirava l’arrivo di un clima decisamente più eccentrico, esuberante, amante dell’artifizio; Ziggy Stardust era già piombato sulle scene e il post-punk sarebbe arrivato qualche anno dopo. “Pink Moon” invece è un disco completamente indifeso: è voce e chitarra, one-take. Simple as that. Scivola addosso, con i suoi 28 minuti di durata e l’abile e ritmato fingerpicking di Drake. La luna rosa arriva, e non se ce ne rende conto. Come nota giustamente il musicista e compositore friulano Teho Teardo, “Pink Moon” cresce “con leggerezza, senza percepire la portata di questa raccolta di canzoni sole e spoglie in cui però non manca nulla. Pink Moon è un oggetto simbolico che si espande, ingloba parti della tua esistenza per restituirle anni dopo quando la vita è ormai diversa, alcune persone non ci sono più ma continuano a roteare negli assi del suono”.
Si prenda la semplicità di un testo come “Know” (“you know that I love you / you know that I don’t care / you know that I see you / you know I’m not there”), accompagnato da un pizzicato jazzato e il canto muto di Drake, o la narrazione kafkiana di “Parasite” dove si immagina un insetto parassita. “Pink Moon” trasuda di una chiarezza così complessa. È la pasta di queste canzoni, nate dalla contingenza dei contesti quotidiani a Tanworth-in-Arden, un piccolo villaggio nella contea del Warwickshire. Eppure, al contempo, veicolano un senso di estraneità abbastanza potente da risultare anacronistiche nel loro rifugiarsi in un mondo bucolico-onirico, in una tranquillità che evidentemente non apparteneva al vissuto di Nick Drake, ma in cui probabilmente amava rifugiarsi, come la rappresentazione quasi surrealistica della luna rosa di Michael Trevithick, protagonista della copertina del disco. Ma la luna rosa è anche simbolo di sciagura, e così fu. A cinquanta anni dall’uscita di “Pink Moon”, come i tre milioni di chilometri che ci separano dal satellite, non se ne percepisce mai la vicinanza. Con le parole di Cristina Campo, “due mondi – e io vengo dall’altro”.
(Viviana D’Alessandro)