Share This Article
In quegli anni ascoltavamo molto Radio Luxembourg che era considerata l’anteprima della discografia internazionale. Noi prendevamo i pezzi che trasmetteva l’emittente che in Italia sarebbero usciti molti mesi dopo. C’era un sound nuovo che da noi era quasi sconosciuto. La radio è stata punto di riferimento per molti artisti e gruppi degli anni Sessanta»
(Claudio Benassi de I Corvi, da un’intervista alla Gazzetta di Modena, 2014)
Negli anni ’60 il beat arrivò a spadroneggiare in Italia. Capelli a caschetto, stivaletti a punta e tanta voglia di emulare i beniamini stranieri del momento, primi fra tutti i Beatles e i Rolling Stones. La cosiddetta beatlemania prende piede come fenomeno sociologico oltre che musicale dopo la diffusione in giro del mondo del film “A Hard Day’s Night” giunto anche nelle sale italiane col nome di “Tutti per uno”. Le avventure e i successi, ma anche la forte amicizia mostrata dal quartetto di Liverpool scatenano in tutto il mondo la fioritura di band giovanili. Tuttavia, almeno in quei primi anni, l’inglese si mastica poco nel Belpaese e, dobbiamo dirlo, la fantasia ancora scarseggia. Così a fare da padrone è la “cover italianizzata”, ovvero una cover di un brano celebre con testo totalmente scritto ex-novo nella lingua nativa. La cosa che però stupisce in tutto questo fenomeno è come abbiano fatto alcuni brani esteri, qui di difficilissima reperibilità, a giungere alle orecchie degli adolescenti nostrani: sfido a trovare nei negozi di dischi italiani dell’epoca un 45 giri degli oscuri Brogues contenente (addirittura come lato B) “I Ain’t No Miracle Worker” poi resa famosa dai Corvi come “Un Ragazzo Di Strada”, o “Rag Doll” dei Four Seasons, poi “Quello Che Non Sai” dei neonati Pooh, oppure ancora brani poco celebri come “Night Time Girl” dei Modern Folk Quintet, tradotta da I ragazzi dai capelli verdi e la lista potrebbe continuare a lungo. Se si ha avuto l’occasione di leggere o ascoltare qualche intervista a riguardo, la riposta degli interessati tirerà sempre in ballo un nome: Radio Luxembourg.
«Cercavamo radio Lussemburgo per trovare una musica. Noi non avevamo dischi stranieri, nei negozi non c’erano»
(Roberto D’agostino)
Radio Luxembourg aveva iniziato le sue trasmissioni nel lontano 1933 e le sue frequenze coprono la Gran Bretagna, ma anche quasi tutto il resto d’Europa, andando a toccare un potenziale bacino d’utenza, negli anni di maggior attività, di addirittura 78 milioni di spettatori giornalieri. Sarà attiva, in varie forme e gestioni fino al 1992. É tuttavia negli anni ’50 e ’60 che si crea il suo forte appeal in quanto è l’unica trasmettere musica fuori dagli schemi, fuori da quello che oggi chiameremmo mainstream. I conduttori dei programmi diventano personaggi più vicini ai giovani per linguaggio, ritmo e gusto, e quella del DJ radiofonico diventa una figura importante. Addirittura il geniale e tormentato produttore inglese Joe Meek (sotto lo pseudonimo di Johnny Watts. Qui potete trovare una delle sue puntate) condurrà un programma tutto suo per presentare le ultime uscite della sua etichetta Trimph, per la quale compone anche la sigla e le cuoriose sonorizzazioni.
Ripercorrere la storia di Radio Luxembourg ci rimanda ad un’epoca in cui la scarsità di mezzi per raggiungere l’oggetto dei nostri desideri, in questo caso la “musica altra”, rendeva il tutto pieno di valore e sentimento, quando i dischi erano introvabili o come minimo troppo costosi. E quindi quando apriamo svogliatamente la nostra fighissima app di streaming sullo smartphone di ultima generazione non sapendo cosa ascoltare pensiamo almeno per un attimo a quell’adolescente del 1963 che, nell’intimo della sua cameretta, nelle tarde ore serali, accendeva il suo registratore a nastro per fermare quelle note disturbate, ma piene di novità che provenivano “di là dal mare”.
(Eulalia Cambria)