Share This Article
Se pensavate di conoscere bene Dan Bejar e i suoi Destroyer preparatevi a rimanere delusi, perché l’unica cosa prevedibile di Bejar è la sua imprevedibilità. Il tredicesimo lavoro della band canadese, “Labyrinthitis”, è esattamente come il disturbo dell’orecchio da cui prende il nome – la labirintite appunto – fastidioso e spiazzante. Sintonizzato a metà degli anni ’80, un po’ stile Cut Copy, con ritmi disco che rimandano alle sonorità dei New Order, il miscuglio di Bejar sembra non aver funzionato del tutto, poiché non riesce a sfruttare la semplicità alla base di tutta la musica dance cui pare far riferimento. Stratificato, forse troppo, il disco è un’escalation infinita di frammenti di idee schiacciate una dentro l’altra, abbellite con voci che passano dal bizzarro cabaret al rap slam poetico. Musicalmente, tutti i singoli elementi hanno un senso, ma tendono a essere messi insieme con fare quasi disinteressato; i primi secondi dell’album sono un assoluto incidente d’auto ritmico: “It’s In Your Heart Now” brano gotico, malinconico, avvolto da una fitta nebbia di synth, è una dichiarazione di empatia da parte di un uomo a se stesso, sincera e calda. I suoni pulsano meravigliosamente per minuti e minuti, ma allo stesso tempo, la sequenza di accordi non riesce a risolversi fino alla fine, una rincorsa contro il tempo alla ricerca della serenità, quasi come a volerla catturare per conservarla in una bottiglia, per usarla al momento opportuno. “June” è indubbiamente uno tra i pezzi migliori di Destroyer. In poco più di sei minuti e mezzo, i “bejarismi” stravaganti di Dan si poggiano su una linea di basso sincopata e funky: “A snow angel’s a fucking idiot somebody made! A fucking idiot someone made in the snow”.
il singolo principale, “Tintoretto, It’s for You”, è indiscutibilmente una delle canzoni più aggressive che Bejar abbia mai scritto. Qui tutto suona più pesante, non in termini di sonorità, ma nel senso di un fremente e tangibile disagio. Infila bocconi di sillabe in ogni metro, mentre la strumentazione oscilla avanti e indietro sotto di lui, come una nave che rischia di schiantarsi sulle rocce. Combinando squillanti tastiere MIDI e corni in un numero che sfida qualunque genere in maniera spavalda e minacciosa sembra quasi imprecare: “Do you remember the mythic beast? A last-minute cancellation at The Last Supper “Oh you’ve prepared such an exquisite feast”, he said. “Now what do you call it when every part of the bird is used?”
Considerando che Bejar e i suoi collaboratori hanno registrato tutto a distanza, può apparire lacunoso il risultato di alcuni aggiustamenti da parte del produttore/polistrumentista John Collins, che ha assemblato le tracce in modo isolato. Nonostante questo, permane l’inconfondibile sensazione di essere stato eseguito da una band vera e propria in studio, più di qualsiasi altro album di Destroyer. Questa sapiente confezione sonora, assieme ai testi originali e l’espressività vocale unica del cantante, riesce a toccare rari momenti di autentica e melodica intimità, bilanciati sapientemente da un’acidità sprezzante.
Labyrinthitis è un disco essenzialmente composto da due anime che convivono bene insieme con brani più brevi e allegri come “Suffer” e la dance orecchiabile “It Takes A Thief”, e canzoni più cupe e prolisse, come le già citate “It’s In Your Heart Now” e “June”. Una parte ha un effetto calmante, l’altra è ricca di atmosfere e paesaggi sonori lussureggianti, inondati di sintetizzatori, chitarre e batteria. Tutto sommato, l’ascolto è coinvolgente e compensa i passi falsi commessi.
Fino all’ultimo respiro di Labyrinthitis, un Bejar instancabile, scava dentro i meandri del nostro essere, ma alla fine con tutta la prosopopea che lo contraddistingue chiude il cerchio (e l’album) cantando “And that is maybe too many words to say” (“The Last Song”). Destabilizzante.
73/100
(Simona D’Angelo)