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Ci sono due leggende metropolitane riguardo a Kurt Vile: una è che le sue canzoni siano tutte uguali, il che non è ma se anche lo fosse la stessa cosa la si potrebbe dire per tanti di quegli artisti che non basterebbe una sola vita a nominarli tutti, e l’altra è che faccia un po’ dormire dal vivo. La seconda, devo ammettere, potrebbe essere la realtà se il metro della sua capacità di esecuzione è l’apertura agli Wilco a Ferrara nel 2016. Che poi magari fu solo una serata storta (e un po’ noiosa per lui e per noi che stavamo ad ascoltarlo).
E allora perché Kurt Vile è così amato? Io una teoria ce l’ho: perché è un outsider, un cantore del take it easy, un sacerdote di un nuovo rock in cui le rockstar non sono eroinomani ma solo genitori amorevoli magari solo un po’ dediti ai cannabinoidi. Un Drugo che eleva una cultura di sobria tranquillità e pacifismo a direttrice del rock contrapposta a quella di cui si riempiono la bocca le radio rockiste, e soprattutto che lo fa consapevolmente per essere un modus del futuro in contrasto con il passato. Perché c’è bisogno – e lo sappiamo – di rimodernare il rock, e sembra paradossale che sia Kurt Vile a incarnare una delle possibili nuove vite per il genere visto che in fondo pesca a piene mani dal folk e cioè da una cultura ancora più anziana del rock stesso. Ma bisogna ascoltare bene i dischi, e leggere tra le pieghe dei suoni. Se infatti un cantautore tronfio (a mio parere) come Adam Granduciel ha pensato di andare avanti ripescando i suononi degli anni Ottanta, o altri si sono completamente immersi in un folk rock direi piuttosto classico (Steve Gunn, che peraltro sopperisce con canzoni ispiratissime come nell’ultimo “Other You”), Kurt Vile ha individuato una via mediana fatta di chitarre elettriche che dialogano e si intersecano con quelle acustiche immerse in un liquido lievemente sintetico e stordente (“amniotico” lo ha definito Stefano Solventi), di canzoni dilatate a dismisura che non vorrebbero finire mai come le cantilene della nonna. Il problema per i più distratti è che vorrebbero assumere Vile come un pop da mandare giù velocemente per poi passare al prossimo album in streaming “che oggi devi ascoltare”, perché non abbiamo tempo per nulla figuriamoci per i brani smisuratamente estesi di Kurt, mentre invece per un album come “(watch my moves)” bisogna ritagliarsi il momento e il tempo giusto (anche perché dura la spropositata lunghezza di 1 ora e 13 minuti!), sedersi, rilassarsi, immaginare, fare giardinaggio, portare a spasso il cane, sorseggiare una birra (poco alla volta), farsi un bagno come faceva Jeffrey Lebowski, insomma prenderla dolce, come dicono a Parma (la locuzione corretta è “tölasúdölsa“).
È vero che dopo l’exploit di “Wakin on a Pretty Daze”, nominato disco dell’anno nei Kalporz Awards 2013, Kurt Vile si era un po’ perso: una riconferma poteva essere considerata “b’lieve i’m goin down…” (2015) ma c’era un po’ di maniera sia nel duo con Courtney Barnett (“Lotta Sea Lice”, 2016) sia nel successivo “Bottle It In”, del 2018, quest’ultimo decisamente il suo meno interessante degli anni Dieci. Sembrava che un periodo di esperienza musicale fosse al termine e infatti, a sottolineare plasticamente questo aspetto, il nuovo “(watch my moves)” esce per un’altra etichetta, avendo Kurt lasciato la storica Matador Records che l’aveva accolto fin dal suo terzo album. Vile ha trovato casa nell’altrettanto mitica Verve, conosciuta per i suoi artisti jazz, e il cambio ha giovato decisamente al suo mood: “(watch my moves)” si presenta come un disco polleggiato come nel tipico stile di Kurt Vile ma diretto, giocoso senza perdere quell’enfasi minimal-psych che è la sua cifra stilistica da sempre.
L’anima frugale di “(watch my moves)” deriva anche, e non potrebbe essere altrimenti, dal confinamento della pandemia che ha fatto ritirare Vile, ancora di più di prima, nel suo nido familiare a Filadelfia con la moglie da quasi vent’anni Suzanne Lang e le figlie Delphine, 9 anni, e Awilda, 11, portandolo a costruire il suo studio di registrazione nella cantina di casa. OKV Central, lo ha chiamato. Un luogo in cui immergersi ancora di più in quella filosofia di rock casalingo che, in fondo, ha sempre portato avanti. Una metaforica montagna dove, stando fermi, vedere tutto il mondo e pensare di volarci sopra.
Standing on top of Mount Airy Hill
Thinkin ‘bout, flyin’
Il tempo di “(watch my moves)” è quello della natura, delle stagioni, degli alberi che crescono. E non sarebbe giusto stare a descriverlo pezzo per pezzo, perché sarebbe come dare un nome a tutti i fili d’erba d’un prato: il loro senso di essere è insieme, nel colpo d’occhio. Così, quando posso, mi ritaglio il tempo giusto per ascoltare “(watch my moves)” tutto intero, accorgendomi che piano piano, mi sta portando altrove come è capace di fare “Wakin on a Pretty Daze”. È Kurt Vile lo slacker gentile di cui abbiamo bisogno.
80/100
(Paolo Bardelli)