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“Come ha fatto Nicolás y los fumadores ad essere una band che suona come Mac Demarco in spagnolo?” dice una voce distorta e robotica sopra il rumore della radio. Santiago Velázquez, manager di Nicolás y los fumadores, band colombiana di Bogotà – noto anche per aver recitato nel video di “Bailando triste”, il primo successo del gruppo – mi ha consegnato una copia virtuale del nuovo progetto della band “Dios y La Mata de Lulo o ¿Qué hacer en caso de que haya perdido la luz?” il 20 febbraio, pochi giorni prima dell’uscita ufficiale (25 febbraio), e un giorno dopo la sessione di ascolto della stampa.
Il secondo album di Nicolás y los Fumadores condivide il suo titolo con la prima canzone, che è uno strumentale. Un unico lungo accordo emerge da una tastiera e da una chitarra, come la luce di una lanterna che buca la notte, e io chiudo gli occhi e immagino come suona il loro suono. Chiudo gli occhi e immagino com’è il loro suono, cosa cerca quel suono? Un fascio di luce che filtra attraverso una fessura in una stanza buia. Un meteorite che cade: Dio che spazza via tutto, compresi i cespugli di lulo (NDR una pianta sudamericana affine alla patata, alla melanzana e al pomodoro). Grazie a quel suono costante immagino come si disegna una foglia: una linea retta avanza sulla carta insieme al suono solitario e costante; le deviazioni della linea sono date in reazione ad ogni dolce e sottile abbellimento della chitarra; il basso cambia l’intensità della linea; e così si dipingono gli angoli, le curve, l’apice del contorno, i nervi – quelle linee che si staccano dal centro verso l’esterno – e, forse, i frutti del lulo.
Ho scoperto che il nome dell’album, che hanno scelto tre anni fa, non significa nulla. E allo stesso tempo invece ha senso, perché è un detto rurale: uno di quelli che serve a fermare la voglia di parlare per riempire il vuoto. Il prozio di Nicolás Correa – di poche parole, come lo descrive il chitarrista – era solito dire “Dios y la mata de lulo” (Dio e il cespuglio di lulo) di fronte ai silenzi imbarazzanti. “Un giorno stavamo provando, eravamo tranquilli e, dal nulla, Nicolás ha detto così”, racconta Juan Carlos. E noi tutti lo guardavamo come: “Cosa?”. È inquietante, a dir poco, che un’espressione sul disagio umano di fronte al silenzio descriva una gamma, come a dire “in questo nulla potremmo parlare del supremo e dell’innocuo, e invece, stiamo zitti… perché, e allora?”.
È l’inquietudine che suscita questa introduzione atmosferica, che sfocia nella canzone successiva. Galleggiando sul fiume che è il suono solitario, le frasi di chitarra azzardano idee che alla fine si sommano, crescono, si perdono, vengono riprese e collegate. La notte della lanterna diventa un villaggio notturno in lontananza; si alza per diventare un cielo stellato; e le stelle diventano una costellazione nella canzone successiva.
Cosa fare se ho perso la luce?
Interpreto che attraverso il resto dei brani dell’album, in cui ci sono dei testi, possiamo vedere dei modi per chiedere e affrontare quel “per cosa?”, anche se non sempre si può rispondere. Perché chiedere perdono se è stato tanto tempo fa? Perché raccontare la mia tristezza se tutti proviamo la stessa cosa? Perché pregare? Perché trasformare il nulla in qualcosa? Perché fare se tutto è già fatto, e noi siamo la generazione condannata agli algoritmi che ci mostrerà dei bambini di qualche altra parte del mondo che già lo fanno meglio?
La canzone che richiede il minor numero di battute per rispondere è “El Verano”, il primo singolo dell’album. Pipex è ancora al basso per questa versione e, come novità, la voce di Paula Pedraza (Paula Pera) è nei backing vocals. La domanda è”perché fare sesso?” e la sua risposta, ovvia e diretta: “perché è ricco”, “perché voglio”.
Da lì una “poetica” dell’album comincia a prendere forma: il caldo è inteso come qualcosa di insopportabile, che inaridisce tutto ciò che incontra e soffoca; ma mi sono anche “lamentato del freddo di Bogotà”, come nella canzone “La Lluvia” (la sua domanda: perché continuare a vivere senza la luce?), perché so che il buio gelido delle tende chiuse soffoca.
“El Sol” (perché lavorare ancora, e in mezzo a tanto caos?) batte contro la finestra e contro le nostre possibilità di continuare a dormire tranquillamente, come se fossimo costretti dal treno della vita adulta ad attraversare la luce per raggiungere “El túnel” (perché lavorare a cose che non mi piacciono?) che è alla fine: una nuova notte di incertezza, di morte o di incapacità di vedere – con un basso che dà un colore diverso, più energico alla band.
È stato anche da “El Verano” che si vedono i primi cenni di un nuovo destino musicale per la band, i primi passi verso una rottura totale con l’ovvia adozione del suono di referenti di Mac De Marco. C’è in quel brano, e nel resto dell’album, una produzione molto più dettagliata, così come un’insistenza, forse ereditata dal loro passato interesse per il jazz, ad esplorare più profondamente la possibilità di dividere le canzoni in “capitoli” sonori, come avevano fatto prima con “Brisa”.
In Dios y la mata de lulo (l’album) il gruppo decide di andare per la dinamica dei “passaggi”, o strutture musicali con sezioni molto delimitate e contrastanti. Questo permette loro anche di creare più strati di significato e di sperimentare nuovi modi di comporre. In “El Sol” si alternano tra un dialogo con il pubblico – e soprattutto con i fan della band – e la narrazione di un sogno, così come in “El verano” passano da una descrizione degli effetti del tempo soleggiato a una descrizione sensoriale del desiderio, e in “La Gloria” (perché l’amore, se è finito?) passano dalla supplica alla preghiera.
Ma in “El sueño de los justos” (Perché continuiamo a metterci nei guai?) e Último servicio (Perché continuare a fare musica?) vanno molto oltre: sono canzoni che servono come intermezzi o scenette, o forse come frammenti di declamazioni poetiche messe in musica, risultanti da testi di Juan Carlos Sánchez.
Questi oscillano tra aneddoti, poesie, passaggi biblici parafrasati e testi attribuiti a terzi e ad altri periodi. La musica è anche una sorta di collage: ci sono registrazioni di risate in studio, il canto lirico di qualcuno che fa il bagno e il suono delle strade, così come cenni di chitarra che vanno dalla melodia di “Sweet Child O’Mine” a un pezzo di Chopin.
Altre canzoni, più tradizionali nella struttura ma non meno innovative nel catalogo dei Los Fumadores, sono “La Gloria”, “La Pálida” e “El Túnel”. Sostenuto da un organo e da voci corali da chiesa, la prima collega l’estasi d’amore con l’estasi religiosa, ma sottolinea, per contrasto, la consapevolezza della finitezza del primo; e, attraverso un rock molto più distorto e riff accelerati, “El Túnel” e “La Pálida” comunicano l’angoscia, rispettivamente, per l’incertezza del lavoro e i disagi fisici ancora incomprensibili per quelli di noi che iniziano a percorrere il decadente cammino dell’età adulta (in effetti, implorano di tornare al grembo materno e non nascere, in una frase che potrebbe aver ispirato lo psicanalista Otto Rank in The Trauma of Birth).
“La Pena (Bolero Veraz)” è un altro caso di innovazione in termini di genere. Come suggerisce il nome, e visto che si sono presi il rischio, la canzone include suoni di vento, cori, altre percussioni e un modo di suonare la chitarra e il basso molto più vicino al suono delle band che suona sempre la nonna di Nicolás, che li ha ispirati. Anche se per l’album hanno optato per una versione con meno enfasi sugli elementi del bolero, colpisce particolarmente il sovvertimento dei cliché dei testi di quel genere per essere coerenti con i nostri tempi.
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