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La storia della musica, considerando la materia nella sua interezza e non limitandoci ad analizzare l’ultimo secolo con la nascita e la diffusione dei supporti fisici e della musica pop, vede le sue grandi evoluzioni e mutamenti legate allo sviluppo tecnologico, come d’altronde ogni disciplina e arte tecnica esistente.
Basti pensare, per tornare a fatti relativamente recenti, l’enorme rivoluzione portata dall’utilizzo del sampler nella musica hip-hop: uno strumento semplicissimo grazie al quale, attraverso l’individuazione di una fonte musicale pre-esistente (il campione) un musicista riesca a individuare il tono, la velocità e altri parametri giusti per la produzione alla quale sta lavorando, evitando il più macchinoso (e limitante) utilizzo del disco originale sul turntable.
Ci sono però alcuni elementi che, pur modificandosi o trovando nuovi modi d’espressione, sono rimasti legati alla produzione sonora in ogni parte del mondo o periodo storico, come se ci fosse un legame primordiale che ci leghi a determinate sound tag.
Un esempio? Presto detto: il suono che più di tutti viene riconosciuto dal nostro cervello, la voce umana. La vibrazione prodotta dalle nostre corde vocali, infatti, ha accompagnato buona parte della musica prodotta nel mondo, utilizzandola nei modi più ‘canonici’ come imitandola o usandola come vero e proprio strumento (sia nella musica colta, con le avanguardie novecentesche o la serialità à-la Schoenberg, sia per nomi più noti come Buckley, Galás, Stratos).
Perchè, per una grande voce, non serve una partitura sperimentale per lasciare tutti a bocca aperta anche dopo decine di ascolti
Altro sound tag degno di nota, per la sua durabilità nel tempo come per la sua mutevolezza, è il ricorso a suoni concreti, o l’emulazione di questi.
Alcuni di questi, tramandandosi per centinaia o migliaia di anni, hanno assunto un’associazione immediata tra il suono/strumento e l’atto che si vuole ricordare; come sempio più banale si può subito pensare alle marce dei soldati scandite dal suono del tamburo o dagli strumenti a fiato che hanno sempre sostenuto le battaglie -e ancora oggi, di fronte a un suono particolarmente scuro e mantenuto di tromba, il pensiero va subito all’Apocalisse o, più di recente, a un rifugio anti bomba.
In Europa però, dopo la rivoluzione della tonalità introdotta da Bach nel XVII secolo, la storia della musica sembrerebbe proseguire su una linea retta, una sola idea di progresso positivista, nel quale -fatte le solite debite eccezioni- non c’è posto per il suono prodotto dai non strumenti, fino alla fine del XIX secolo.
In questi anni, grazie anche al potere scenico dell’opera, vari compositori si divertono a inserire suoni ‘reali’ nelle proprie composizioni , aggiungendo un tocco di concretezza alla propria musica. Gli esempi sono molteplici: le incudini per Wagner e Verdi, spari di cannone e di moschetto per Puccini, Čajkovskij, Beethoven e Mahler, solito a inserire strumentazioni ‘particolari’ nelle proprie partiture attirando spesso anche incomprensioni e malumori.
Alla metà del XX secolo il compositore francese Pierre Schaeffer, teorizzando quella che egli stesso chiama musique concrète, rivoluziona il modo di pensare il suono: una musica fatta di elementi concreti, preesistenti sia in natura che nella tradizione musicale, che insieme trovano una nuova dignità grazie al lavoro del compositore, ormai distaccatosi dalle forme tradizionali di notazione e composizione musicale.
Una delle composizioni concrete più note è il “Poème électronique” di Edgard Varèse, presentato all’esposizione mondiale di Bruxelles del 1958 per il padiglione della Phillips
Avvicinandoci ancora di più ai giorni nostri, più specificamente dopo la diffusione del sampler e dei software di produzione musicale, appare chiaro come questo percorso si apra a un numero indefinito di musicisti, anche i meno avvezzi e interessati all’avanguardia o alla sperimentazione. Ma sperimentazione, in un certo senso, rimane: cosa succede se ai soliti suoni percussivi in una traccia dance (siano essi sintetici o prodotti da percussioni reali) sostiuissimo dei suoni di pistola?
La risposta già c’è, in realtà, e molti di voi alla lettura avranno già portato la mente alle atmosfere cupe di “Untrue”, capolavoro drum and bass del 2007 a opera dell’allora sconosciuto producer britannico Burial. Disco basato principalmente sulle tecniche di campionamento e realizzato con attrezzatura elementale, “Untrue” rimane a oggi un classico imprescindibile sia della club culture e derivati come della musica elettronica. Traslando quell’idea di ‘futuro passato’ che già esperienze come i Boards of Canada avevano esplorato nei confini della musica elettronica a uno stile più accessibile rispetto all’IDM come la drum and bass.
L’album, costruito attraverso layer di campioni, deve la propria fortuna al curioso saccheggio del videogame Metal Gear Solid, da cui provengono molti dei sample utilizzati e l’iconico suono di batteria su cui si regge l’album. Perchè d’altronde, in un pezzo dance (per quanto de-strutturato possa essere) la batteria è il perno della questione.
Cosa rimane, arrivando alla stretta attualità, di tutto questo discorso? Come spesso accade in tutte le storie, con una sintesi.
Se con “Untrue” Burial riesce a definire (forse) il sound più iconico degli anni ’00, ad assolvere a questo compito nel nuovo decennio ci ha pensato SOPHIE. E indovinate che tipo di suono voglio andare a evidenziare della producer scomparsa nel 2021?
Esatto, le batterie. Pur lavorando con suoni sintetizzati, da vera maestra della sintesi FM, il sound della musicista britannica ha sempre ricercato una sorta di iperrealtà in cui i suoni, seppur generati da circuiti e voltaggi, sembrano ricordare dei suoni più veri del vero.
“Faceshopping”, uno dei singoli estratti dall’unico LP pubblicato “Oil of Every Pearl’s Un-Insides” (e il brano di SOPHIE con più visualizzazioni su YouTube, quasi 5 milioni nel momento in cui scrivo), presenta dei suoni percussivi che sì sono sintetizzati, ma che rimandano l’orecchio e il pensiero ogni volta al suono brutale di pentole/metalli che cozzano tra loro.
Nonostante non sia nè il luogo nè il caso di scrivere qui un’analisi più o meno attenta riguardo all’utilizzo di suoni concreti e simili anche al solo interno della musica pop (e ce ne sarebbe tanto da scrivere), questo elenco di tracce e nomi vorrebbe essere, oltre a un velocissimo bignami di esperienze simili, un invito al lettore a porre più attenzione all’ambiente sonoro che vive, come ai suoni prodotti dagli oggetti di ogni giorno intorno a sè. Perchè, in fondo, un accordo di chitarra e un motore che si accende sono entrambi eventi sonori memorizzati nel nostro cervello, sta solo a noi decidere se dargli dignità musicale o meno.
(Matteo Mannocci)