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La prima bozza di questo pezzo risale a tante settimane fa. Erano i giorni del tour americano dei Måneskin ed avevo pensato sarebbe stato divertente parlare di un’altra band italiana che aveva spopolato all’estero. Curiosamente, si trattava anche della prima band new wave occidentale ad aver mai suonato in Unione Sovietica.
Non devo specificare perché al momento questo incipit sia meno divertente, ma ho pensato che sarebbe comunque stato interessante parlare di quella band. È ancora divertente che non si tratti di parlare di una band underground da rispolverare, ma di uno dei gruppi di maggior successo della storia della nostra musica: i Matia Bazar.
Stando al libro “Back in the USSR: the true story of rock in Russia”, fu proprio Gosconcert (la booking agency di Stato) ad invitarli per un tour estivo nel 1984. Un autentico cavallo di troia sintetico nel minestrone di roba sanremese finita a fare overdose di sold-out a Mosca e dintorni. Provenienza a parte, il sound era dichiaratamente ispirato a band come gli Ultravox, mentre i costumi e la voce di Antonella Ruggiero potevano certo ricordare Siouxsie.
Parlare di Antonella “Matia” Ruggiero e dei Matia Bazar su queste pagine mi risulta inevitabilmente surreale, quindi mi metto a mio agio citando il suo debutto solista “Libera”. Un silenzio di 7 anni rotto con un bizzarro ethnic-pop registrato tra Madras e Los Angeles. Insomma, dopo essere stata la Siouxsie, la Ruggiero si è trasfigurata anche in una specie di Sheila Chandra.
I Matia Bazar sono stati sicuramente una cosa molto strana successa alla musica italiana, forse i primi (almeno tra gli artisti da classifica) a mescolare così elettronica e melodia da canzonetta. Tutto l’immaginario della band, a partire dall’acconciatura e dagli abiti di Matia, richiamava un immaginario anni Quaranta, in netta contraddizione con il suono assolutamente al passo coi tempi, perfino futuristico. Era come se Blade Runner fosse stato girato con l’estetica di Casablanca, post-modernismo puro.
La sublimazione di questa formula è sicuramente “Vacanze Romane”, che senza paura definisco capolavoro. Un grande pezzo di musica leggera, reso leggendario dal soprano robotico e melodrammatico della Ruggiero che si inerpica su beat e synth che non dovrebbero aver cittadinanza sull’arrangiamento di Carlo Marrale.
Pochi gruppi sono stati in grado di acquerellare paesaggi sonori così ambigui, a metà strada tra un videogioco old-gen ed una visione onirica di David Lynch. Se ci fosse una band italiana così oggi, soprattutto se fosse in cima alle classifiche Spotify, se ne dovrebbe parlare dappertutto. Sulle terrazze del corso e su webzine come questa.