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(Il titolo del saggio è liberamente ispirato all’opera Derrida e Artaud: la maschera e il filosofo. [1])
Per celebrare l’81° compleanno di Bob Dylan ci occupiamo di una questione non sufficientemente studiata all’interno della produzione del cantautore: il tema della maschera. Questo lungo periodo di crisi e di anomalie – due anni abbondanti di mascherine in Occidente che ci hanno obbligati a esperire l’altro come se fosse velato, e mentre il mistero aumentava aumentavano con esso anche le difficoltà a conoscere o a riconoscere chi si aveva di fronte – ci ha ricordato che tutti noi indossiamo spesso una maschera. Il Premio Nobel per la Letteratura 2016, nel corso della sua lunghissima carriera, ha scritto e cantato anche di questo, un tema che in lui incide nell’arte come nella vita.
1. «I’ve got my Bob Dylan’s mask on»
«I’ve got my Bob Dylan’s mask on»: questo annuncia Bob Dylan sul palco della Philarmonic Hall di Manhattan il 31/10/1964, in una nottata particolarmente “sentita” per gli americani, la serata di Halloween, la festa in maschera per eccellenza. Bob Dylan, allora al suo quarto album in poco più di due anni, era già al tempo considerato uno dei cantautori più rilevanti della sua generazione. Aveva già dato alle stampe, dopo l’omonimo debutto del 1962, i dischi The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), The Times They Are A-Changin’ e Another Side of Bob Dylan (entrambi usciti nel 1964), e si avviava a diventare una delle figure più straordinarie della contemporaneità. Per la verità quella maschera – posto che essa sia soltanto una: il regista Todd Haynes, nella sua pellicola I’m Not There, del 2007, liberamente ispirata alla vita e all’opera del cantautore, lasciò che sei diversi attori, per sei differenti fasi della sua carriera, lo interpretassero – era stata indossata per la prima volta un paio di anni prima, quando quel giovane promettente ed energico, nato in Minnesota, decise, forse anche per riscrivere il suo recente e così breve passato, di cambiare legalmente il suo nome, Robert Allen Zimmermann, in quello di Bob Dylan.
1964. È in corso una tournée statunitense che vede il cantautore eseguire alcuni dei brani più celebri della sua carriera, qualche pezzo da lui scritto non pubblicato ufficialmente e alcuni traditionals, in piena coerenza con il percorso musicale che ha imboccato. Non va mai dimenticato, infatti, che il sottobosco entro cui il cantautore si forma è quello della musica tradizionale folk, della canzone angloamericana più antica e dei blues e dei gospel che fino a oggi sarebbero rimasti, oltre alle amplissime influenze letterarie, filosofiche e cinematografiche, la pagina bianca partendo dalla quale dà vita alle sue composizioni. Si pensi al fatto che nei ’90s Dylan avrebbe inciso due album di covers e traditionals e nei ’10s ben tre dischi, di cui uno triplo, con reinterpretazioni di brani tratti dal Great American Songbook, e che alcuni brani tradizionali o del Great American Songbook sarebbero stati inclusi nelle scalette dei suoi live per decenni. Fatta questa doverosa premessa, è chiaro che la frase pronunciata dal cantautore in quella nottata, accompagnata da una risata sua e del pubblico, vada messa in correlazione con l’universo creativo cui l’autore aveva da poco iniziato a dare vita, nel quale gli stessi generi cui attinge come fonte di ispirazione rivestono all’occorrenza la funzione di maschera, che al cantautore serve per valorizzare e creare la sua identità piuttosto che per velarla. È una necessità che accompagna l’autore da sempre, [2] quando ancor prima di scegliere il nome Bob Dylan si esibiva con altri pseudonimi, come Blind Boy Grunt o Elston Gunn.
Quello di fronte al quale ci troviamo è un atteggiamento, se non proprio una forma mentis, che investe la sua produzione nel momento in cui, come da tradizione nella folk music angloamericana, una certa melodia viene riadattata e abbinata a liriche nuove, scritte per l’occasione, o quando alcuni elementi del testo vengono inseriti nella nuova creazione. Così nascono, con procedimenti che distanziano, talvolta anche di molto, l’esito dalla fonte originaria, numerose composizioni, da “Blowin’ in the Wind” che riprende il traditional “No More Auction Block” a “I Was Young When I Left Home” che guarda a “500 Miles”, da “Girl from the North Country” e “Boots of Spanish Leather” che sono costruiti intorno alla successione di accordi di “Scarborough Fair”, che “Girl from the North Country” cita anche nel testo, ad “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” che cita esplicitamente la ballata “Lord Randall”. Ciò investe solo in parte la sua produzione, ma è un punto decisivo nonché emblematico del processo creativo dell’autore. È chiaro, dunque, che in Bob Dylan il concetto di indossare una maschera, e in particolare di stare indossando quella di Bob Dylan, sia in primis un escamotage per spostare la centralità da sé con lo scopo principe di mettere in primo piano la sua arte.
2. Su maschere e trasfigurazioni
Nella letteratura novecentesca un autore che tratta in lungo e in largo il tema della maschera è notoriamente Luigi Pirandello. Nel sistema letterario-filosofico dell’autore siciliano la forma ingabbia la vita: tutti noi indossiamo maschere ogni volta che decidiamo di esporci al mondo circostante. [3] Apparire ed essere in questo senso sono in continuo conflitto; la maschera rappresenta un io frantumato che si adatta alla situazione contingente. Solo in rarissimi momenti la vita riesce ad affiorare: in quegli attimi le inibizioni e i freni imposti dal contesto sociale si eliminano e l’istinto prevale. Pirandello spesso identifica ciò negli istanti di follia e nelle manie compulsive che di tanto in tanto ci attraversano, ben esemplificati dal celebre avvocato e professore di diritto che nel racconto La carriola ha il chiodo fisso di far fare alla sua cagna la “carriola” ogni giorno, quando è certo che nessuno lo vede. [4] Allo stesso modo, un breve momento di autenticità è quello che Mattia Pascal vive tra l’annuncio della sua (non) morte e l’assunzione della nuova identità, quella di Adriano Meis. Il confronto con Pirandello, il cui sistema sembra essere in opposizione con la visione dylaniana, può fornirci una chiave di lettura importante per decifrare la scelta di Robert Allen Zimmermann di assumere un nuovo nome (e di adottare, nel corso della sua lunga carriera, molti altri pseudonimi, di cui parleremo tra poco).
La maschera posta sul volto di Zimmermann sin dal 1962, ancor prima che il cantautore iniziasse a pubblicare dischi ufficiali e a ottenere ingaggi per show prestigiosi, è una maschera che, più che fermare il flusso della “vita”, per utilizzare nuovamente una categoria pirandelliana, e ingabbiarla, si prefigge lo scopo di creare la vita stessa, come se prima di questa tappa essa fosse un pezzo di marmo ancora non lavorato. È in un’intervista di pochi anni fa, che prenderemo in esame più avanti, che Dylan sostiene che la vita sia un percorso nel quale si deve creare, e non trovare, sé stessi. Come ci ricorda ancora Alessandro Carrera, «durante un’intervista rilasciata alla CBS [nel 2004], Dylan ammette di non essere mai riuscito a concepire sé stesso come “Robert Zimmermann”, nemmeno prima di diventare Bob Dylan». [5] La celebrata autobiografia Chronicles Volume 1, a oggi il solo tomo pubblicato di un ipotetico progetto in più libri, dove il cantautore si occupa solamente di alcuni momenti della sua carriera, può offrirci alcuni esempi di creazione del sé. [6] È ancora Carrera a venirci in aiuto: lo studioso, nell’occuparsi di Chronicles e di ciò che Dylan può avere o meno modificato o inventato nel parlare di sé, mette in dubbio l’esistenza di alcuni personaggi o di alcune situazioni, come quella di Ray e Chloe Kiel, coppia di cui non conosciamo nulla ma che, stando a quanto ci racconta Dylan stesso, avrebbe ospitato frequentemente il cantautore a New York. [7] Non è un caso che molta della grandezza di Chronicles, opera letteraria dal valore straordinario, stia, per citare nuovamente Carrera, in «quello che tace o rifiuta di dire». [8]
La maschera che Robert Zimmermann si è scelto per sé, Bob Dylan, è il vero sé dell’autore. I «ricordi artefatti» [9] che il cantautore inserisce nell’opera sono in perfetta armonia con la necessità di vivere la storia nel momento in cui egli la sta scrivendo o cantando e, in qualche modo, in parte, di riscriverla. È un tratto tipico del magistrale talento compositivo di Dylan, di cui anche l’accademico e docente di Lettere Classiche ad Harvard Richard F. Thomas ha scritto nei suoi saggi e del quale ha discusso in un’intervista pubblicata su queste pagine, [10] una tendenza che comprende, per esempio, sempre per citare un passaggio di Chronicles, l’aver attribuito a Sofocle un trattato sull’origine dei sessi che il tragediografo e politico greco mai ha scritto e che più che un banale errore sembra essere una speranza di Dylan, un “sarebbe potuto esistere”, un “avrei voluto leggerlo”.
È impossibile, a questo punto, non citare, pur trattandola molto rapidamente, la «transfiguration» che Bob Dylan menziona nell’intervista rilasciata a Rolling Stone nel 2012, in occasione dell’uscita dell’album Tempest, disco in studio pubblicato dal cantautore nel settembre di quell’anno. [11] Anche se la trasfigurazione non è da intendersi come una maschera, essa è pur sempre qualcosa che vela o completa la propria natura, la riscrive, trasmigra quella di un altro, la rende qualcosa di diverso da come avrebbe potuto essere. È impossibile capire cosa intendesse davvero Dylan in quello specifico passo, quando viene chiamato in causa un tale Bobby Zimmermann degli Hell’s Angel morto nel 1961. Dylan sostiene che si sia trasfigurato in lui e aggiunge, rivolgendosi al giornalista Mikal Gilmore che lo sta incalzando: «I’m not like you, am I? I’m not like him, either. I’m not like too many others. I’m only like another person who’s been transfigured. How many people like that or like me do you know?». C’è in Bob Dylan qualcosa del «poor Bobby Zimmermann»? O si tratta di una trasfigurazione che non ha alcun impatto su ciò che egli è? Pare strano, allora, che Dylan parli di ciò con così tanto trasporto. Dylan, tuttavia, è molto reticente e la sua spiegazione un poco confusionaria: non si giunge a una risposta chiara. Anch’io, dice Dylan, ho avuto un incidente in moto quasi fatale nel 1966. E quindi, ci chiediamo? Dylan consiglia a noi e a Gilmore di leggere No Man Knows My History del mormone Joseph Smith. La “maschera” Bob Dylan ci sta parlando di verità della fede, di escatologia, di come poter «fly above [the chaos]»: proprio come le maschere indossate dagli attori della tragedia greca, portatori di verità ultime che la pólis non doveva ignorare, maschere che avevano sostituito il dipingersi il volto, una caratteristica che avrebbe contraddistinto il Tour 1975, del quale si parlerà. Sul concetto di trasfigurazione Dylan gioca a nascondino: si vela e disvela senza fornirci indizi, come ha fatto per tutta la sua carriera, in particolare con chi lo intervista. Se vuoi sapere di più sulla trasfigurazione, dice a Gilmore e, forse, anche a noi, «you’ll have to go and do the work yourself to find out what it’s about». [12]
3. «Life is about creating yourself»
Anche alcuni dei personaggi del mondo musicale e letterario dylaniano indossano maschere o sono caratterizzati attraverso soprannomi che in qualche maniera ne velano l’identità che si cela dietro il nomignolo. In “Like a Rolling Stone”, [13] per esempio, Dylan decide di utilizzare alcuni nomi parlanti che in qualche modo qualificano i personaggi dando loro una maschera. Il narratore vede la vita della interlocutrice, chiamata, appunto, Miss Lonely, cadere in disgrazia: la Miss Solitudine è una giovane ragazza che si gode la vita e spende e spande il denaro dei genitori finché poi non finisce per diventare come il Napoleone straccione (Napoleon in Rags) di cui un tempo si faceva beffe. Sia Alessandro Carrera, in riflessioni condotte in più luoghi, nella sua produzione saggistica sul cantautore e nella traduzione e annotazione delle opere dylaniane, sia Mario Gerolamo Mossa, autore di una monografia di taglio filologico sul brano in questione, [14] hanno trattato ampiamente del brano e non è questo lo spazio adatto per riprendere le loro riflessioni. Che sia l’allegoria di una ragazza della cerchia di Andy Warhol con la quale Dylan era entrato in contatto o un alter ego di Dylan stesso o un’invenzione letteraria che non ha alcun contatto con la realtà che circonda l’autore, la “maschera” Miss Lonely è parádeigma di tutti quelli che, da una situazione di successo, prosperità e letizia, si ritrovano a scivolare in un tunnel di oscurità e di disgrazie per colpe quasi unicamente proprie. Non è sbagliato dire, insomma, che se oggi volessimo riferirci a una persona che è passata attraverso una vicenda simile potremmo indubbiamente definirla “una Miss Lonely”. Ecco che Dylan, indossata ormai molti anni prima la maschera che lo ha reso sé stesso, adesso può permettersi di cantare questo tipo di storie, assolutamente uniche nel panorama cantautorale mondiale.
Sono trascorsi dieci anni dalla registrazione e dalla pubblicazione di quel brano che ha cambiato la storia quando, nel 1975, Bob Dylan, dopo essere tornato a vivere nel Village solo pochi anni prima e appena qualche mese dopo l’uscita del sublime Blood on the Tracks, inizia a frequentare l’Other End, venue dove si esibisce frequentemente nella primavera e nell’estate di quell’anno e dove salgono sul palco anche Ramblin’ Jack Elliott, il compianto hip Bob Neuwirth, morto qualche giorno fa a 82 anni, che era stato al fianco di Dylan come un’ombra tra il 1964 e il 1965, Ronee Blakley e la allora emergente Patti Smith. Il cantautore è a New York, dove sta componendo e incidendo le canzoni che sarebbero finite su Desire, che sarebbe uscito all’inizio del 1976. Matura in quei mesi la decisione da parte di Dylan, intenzionato a dar vita a una tournée differente da quella che lo aveva visto impegnato con The Band nel 1974, di creare il progetto Rolling Thunder Revue, un carrozzone di artisti che riuniva Dylan stesso, la band che lo accompagna, da lui denominata Guam, e altri cantautori e artisti che potevano variare in base alla giornata, tra i quali vi erano Joan Baez, Joni Mitchell, i già citati Ramblin’ Jack Elliott e Bob Neuwirth e, di tanto in tanto, anche Allen Ginsberg, che si avvicendavano sul palco o che, nel caso di Baez, accompagnavano Dylan in alcuni brani dei suoi due set. La Rolling Thunder I inizia alla fine di ottobre del 1975 e si conclude a dicembre al Madison Square Garden, dove a salutare Bob nel backstage ci sono Muhammad Ali e Bruce Springsteen. Ampiamente studiata dalla critica, la Rolling Thunder è stata oggetto di approfondimento di un Bootleg Series, il Vol. 5 (2002), di un cofanetto intitolato The 1975 Live Recordings (2019) e del documentario di Martin Scorsese uscito per Netflix nel 2019 stesso, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, che si occupa del Tour 1975 e dei suoi preparativi. La Rolling Thunder II si tenne, invece, nella primavera del 1976, con caratteristiche e arrangiamenti diversi dalla prima ma altrettanto originali e mozzafiato.
In questo periodo il tema della maschera e più in generale quello del celarsi dietro un altro sé è percorso in maniera sistematica e chiara sin dalla decisione di Dylan di presentarsi sul palco, nella Rolling Thunder I, con il volto dipinto di bianco, scelta che spesso veniva accompagnata dall’indossare una maschera unicamente nel corso della prima canzone del set, “When I Paint My Masterpiece”, che spesso veniva cantata col già citato Neuwirth. È un Dylan, quello del ’75, che vuole reinventarsi ancora una volta. Il suo matrimonio è a pezzi; è tornato a vivere a New York, è esplosivo e ispirato e ha ricominciato a imbarcarsi in tournée prolungate solo un anno prima con The Band. Qualcosa di originale e di spiazzante è quello che gli serve per segnalare la nuova fase artistica che sta attraversando. Ecco, quindi, che nel 1975 ritorna la maschera, che sia quella vera e propria che indossa solamente ogni tanto nel brano d’apertura del suo primo set o quella allegorica del volto dipinto di bianco, entrambe a coprire la maschera di Bob Dylan che continua a indossare. Forse è metateatro, forse è lo straniamento dell’attore brechtiano che sarebbe diventato modus operandi sistematico e sempre più complesso e articolato dal 1988 a oggi, nel suo cosiddetto Never Ending Tour. È nell’intervista rilasciata a Scorsese per il suo già citato documentario del 2019 che Dylan pronuncia la frase, variazione e ampliamento di una gnome attribuita a George Bernard Shaw, «life isn’t about finding yourself or finding anything: life is about creating yourself», menzionata anche sopra. Questa dichiarazione di intenti è il manifesto perfetto per descrivere non soltanto l’avventura del biennio Rolling Thunder ma l’intera vita dylaniana, non unicamente quella artistica.
4. Masked and Anonymous
Il film Masked and Anonymous, il cui titolo è già una dichiarazione d’intenti, esce nel 2003 per la regia di Larry Charles e con una sceneggiatura scritta a quattro mani da Charles stesso e da Bob Dylan. Un primo elemento significativo sta nel fatto che i due firmano la sceneggiatura con nomi fittizi: Dylan assume quello russofono di Sergei Petrov. Il mascheramento e l’anonimia intervengono, quindi, sin da subito, investendo anche l’aspetto più marginale dei credits. Nel film, ambientato in una nazione misteriosa che pare essere collocata in un distopico Nord o Centro America e che è governata da un dittatore, Bob Dylan interpreta Jack Fate, figlio del dittatore e celebre cantautore, che è in prigione da tempo. Viene scarcerato e gli si concede di tenere un concerto benefico. La trama è per certi aspetti troppo cerebrale, confusa e non particolarmente avvincente e la pellicola è cinematograficamente mediocre, ma l’importanza che l’opera riveste all’interno del “contesto artistico” del cantautore non va sottovalutata. Utilizzo qui l’espressione di “contesto artistico” per ribadire ancora una volta che Dylan è un fiume in piena e può essere (forse soltanto in parte) compreso e capito solo se si segue, anche e soprattutto con un taglio filologico, ogni singolo aspetto della sua produzione artistica, per poter provare, così, a catturare la sua visione del mondo e della storia. Tornando al film è opportuno chiedersi che cosa questa storia significhi e quale ruolo abbia all’interno della produzione musicale dylaniana, che risuona prepotentemente nel corso di tutta la pellicola dal momento che Fate interpreta canzoni di Bob Dylan e alcuni traditionals. È di nuovo Carrera il primo tra gli studiosi di Dylan a cogliere la centralità di quest’opera, scadente da un punto di vista cinematografico ma lucidamente rilevante, nell’universo dylaniano. In un articolo pubblicato online diversi anni fa, [15] Carrera mette in rapporto il film con la Maschera di ferro di Alexandre Dumas padre, mostrando i punti di contatto tra le due narrazioni, ma compie un decisivo passo in avanti quando, sia nell’articolo online appena citato sia in un suo saggio molto più recente, [16] richiamandosi alla scena del «soffertissimo bacio» [17] tra Jack Fate e Angela Bassett, che è l’amante del padre ma anche quella di Jack Fate, si rende conto che in Masked and Anonymous si gioca una partita ben più grande e cruciale di un semplice remake della Maschera di ferro: un nuovo capitolo del rapporto tra Bob Dylan e il mondo afroamericano, caratterizzato dalla sua fascinazione verso la musica nera e dalla sua frequentazione di donne nere (ne aveva sposata una negli Anni Ottanta, dalla quale ebbe una figlia), e della complicata, e qui impossibile anche soltanto da sintetizzare, relazione tra le sue radici ebraiche e l’universo afroamericano, una questione che emerge in molte delle canzoni da lui scritte tra il 1978 e il 1986, brani poetici, ermetici e contraddittori, che portano in loro un tormento interiore evidente. Solo attraverso un nuovo mascheramento Dylan poteva tornare a parlare di quella storia così intricata e claustrofobica. «The fundamental gesture behind Dylan’s œuvre is indeed the permanent construction and deconstruction of himself», [18] scrive Cristophe Lebold, e questo film lo dimostra una volta di più, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno. Nonostante le premesse, Dylan non riesce a sbrogliare la matassa di quella storia complicata, ma, come sottolinea Carrera, «[he did not failed], because he tried, and nothing more than trying could he do». [19] Va infine ricordato, en passant, che il nome Jack Fate assomiglia molto a quello di Jack Frost, altro pseudonimo dietro il quale si cela sempre Bob Dylan, che con questa “cifra” si firma produttore di tutti i suoi album in studio da “Love and Theft” (2001) in avanti, compreso il recente, splendido Rough and Rowdy Ways (2020). Jack Fate e Jack Frost rappresentano le ennesime maschere dietro il quale l’artista cerca nuovi rifugi.
Le trasformazioni di Bob chiaramente non finiscono qui. Qualche tempo prima dell’uscita di Masked and Anonymous, suonando a Newport il 3 agosto 2002, trentasette anni dopo il celebre concerto del Newport Folk Festival nel quale il cantautore era salito sul palco accompagnato da una band e imbracciando una chitarra elettrica, Dylan aveva indossato barba e baffi posticci, un unicum che pare non essere casuale viste le circostanze, vale a dire il suo ritorno sul luogo del misfatto, in quella stessa città dove alcuni decenni prima era stato fischiato e sfidato da una parte del suo pubblico. In questo giuoco delle parti che sembra non avere fine e in cui il Maestro pare voler giocare a rimpiattino con noi rientra anche Shadow Kingdom, il film-concerto registrato nel maggio 2021 e diffuso qualche mese dopo, a luglio. Su un palco evidentemente ispirato alle scenografie di Twin Peaks, scenografie che avrebbe adottato anche per le tournée del 2021 e del 2022, Bob Dylan esegue alcuni brani senza spettatori davanti e ne esegue altri di fronte a un pubblico di “fantasmi” abbigliato in pieno stile ’40s o ’50s, che fuma, beve e balla; i suoi musicisti hanno la mascherina, elemento che ci riporta alla contemporaneità; il pubblico che ogni tanto compare, e che sembra provenire da un’altra epoca, no: proprio come nelle sue canzoni, il presente, il passato e il futuro sono un unico fiume, scorrono tutti insieme, si mescolano; l’autore non ha bisogno di maschere “concrete” poiché ha sempre addosso quella che lo rende lui e non un altro. Come scrive Carrera, Dylan «non ha neanche bisogno di mettersi la maschera: l’ha sempre avuta addosso». [20]
Note
[1] Autori Vari, Derrida e Artaud: la maschera e il filosofo, Medusa Edizioni, Milano, 2017.
[2] Tra le tante biografie di Bob Dylan si consigliano quella di Anthony Scaduto, Bob Dylan, Helter Skelter Publishing, London, 2001 (ristampa della 1° edizione Grosset & Dunlap, New York, 1971) e quella di Robert Shelton, di recente ristampata e ampliata, Bob Dylan: No Direction Home (Revised Illustrated Edition), Palazzo Editions, Bath, 2021 (1° edizione Beech Tree Books, New York, 1986).
[3] Di Luigi Pirandello si vedano in particolare i romanzi Il fu Mattia Pascal, pubblicato a puntate nella Nuova Antologia nel 1904 e in volume nello stesso anno, e Uno, nessuno e centomila, pubblicato a puntate ne La Fiera Letteraria nel 1925 e in volume nel 1926, l’opera teatrale Sei personaggi in cerca d’autore, messo in scena in una prima stesura nel 1921, e il saggio L’umorismo del 1908. Va altresì ricordato che Pirandello dà come titolo complessivo alla sua produzione teatrale quello di Maschere nude.
[4] Il racconto, scritto nel 1917, è contenuto nelle Novelle per un anno.
[5] Alessandro Carrera, La Voce di Bob Dylan, 3° edizione riveduta e ampliata, Feltrinelli, Milano, 2021 (1° ediz. 2001; 2° ediz. 2011), p. 95. L’intervista del 2004 per la CBS è reperibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=hOas0d-fFK8. Ultimo accesso: 22 maggio 2022.
[6] Bob Dylan, Chronicles Volume 1, Simon & Schuster, New York, 2004. La traduzione italiana, a cura di Alessandro Carrera, è uscita per Feltrinelli, Milano, nel 2005.
[7] Alessandro Carrera, La Voce di Bob Dylan, cit., p. 95 e p. 386.
[8] Alessandro Carrera, La Voce di Bob Dylan, cit., p. 385.
[9] Alessandro Carrera, La Voce di Bob Dylan, cit., p. 392.
[10] Richard F. Thomas, Why Bob Dylan Matters, Dey Street Books, New York, 2017. L’intervista a Richard F. Thomas pubblicata su Kalporz nel 2021 è consultabile al seguente link: http://www.kalporz.com/2021/05/bob-dylan-at-80-interview-with-professor-richard-f-thomas-author-of-why-bob-dylan-matters/. Ultimo accesso: 22 maggio 2022.
[11] Bob Dylan Unleashed, in Rolling Stone, intervista pubblicata il 27 settembre 2012 e consultabile al seguente link: https://www.rollingstone.com/music/music-news/bob-dylan-unleashed-189723/. Ultimo accesso: 18 maggio 2022.
[12] Bob Dylan Unleashed, in Rolling Stone, cit.
[13] Il brano, la cui versione in studio pubblicata ufficialmente è stata registrata il 16/06/1965, apre l’album Highway 61 Revisited (Columbia, 1965).
[14] In Alessandro Carrera, La Voce di Bob Dylan, cit., passim, e in Bob Dylan (trad. di Alessandro Carrera), Lyrics 1962-2020, 3 voll., Feltrinelli, Milano, 2021, nelle note in fondo al primo volume relative alla suddetta canzone; Mario Gerolamo Mossa, Bob Dylan & “Like a Rolling Stone”: Filologia, composizione, performance, Mimesis, Milano, 2021.
[15] Alessandro Carrera, “La tortura della Maschera di Ferro. Su Masked & Anonymous,” consultabile al link http://www.maggiesfarm.it/mascheradiferro.htm. Ultimo accesso: 22 maggio 2022.
[16] Alessandro Carrera, “Between the Shulamite and the Queen of Sheba: The Love Poem That Bob Dylan Could Not Write”, in Fabio Fantuzzi, Maria Anita Stefanelli, Alessandro Carrera (ed. by), Bob Dylan and the Arts: Songs, Film, Painting, and Sculpture in Dylan’s Universe, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2021, pp. 83-101.
[17] Alessandro Carrera, “La tortura della Maschera di Ferro. Su Masked & Anonymous,” cit.
[18] Christophe Lebold, “A Face Like a Mask and a Voice that Croaks: An Integrated Poetics of Bob Dylan’s Voice, Personae, and Lyrics”, in Oral Tradition, 22/1, 2007, p. 63.
[19] Alessandro Carrera, “Between the Shulamite and the Queen of Sheba: The Love Poem That Bob Dylan Could Not Write”, cit., p. 101.
[20] Alessandro Carrera, “La tortura della Maschera di Ferro. Su Masked & Anonymous,” cit.
(Samuele Conficoni)