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Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.
#7
Dovevano avere un aspetto attraente i croissants, quella mattina. La vetrina si andava svuotando vistosamente, di fronte a clienti per la maggior parte incerti sul soddisfare questa voglia o quell’altra. Non capisco come si possa entrare in una bottega assolutamente ordinata, avvicinarsi al pane tanto da averlo sulla punta del muso ed arrivarci così indecisi. I più curiosi sono i vacanzieri, mossi da un’intenzione solida: quella di volersi far svelare qui il segreto di un’intera nazione. Oppure entrano in boulangerie accidentalmente, perché attratti dagli odori che emanano i forni. Mi parlano credendo che io li capisca, non tenendo conto del fatto che un dato fonema andrebbe pronunciato in un determinato modo. Altrimenti, a chi ascolta, arriva un significato tutto da supporre.
Gli habituè si manifestano al diradarsi della folla e ritirano la confezione dopo aver chiesto “il solito”, che ricordo così bene da poterci scommettere. Solo qualcuno si concede di rivolgersi all’altro dandogli del tu. In Francia, del resto, nè gli sportelli delle banche nè le campagne pubblicitarie osano farlo.
Era uno di quei quei momenti in cui, gessetto alla mano, guardo l’orologio in preda alla frenesia e intanto aggiorno il tableau. Riempii i vassoi per non lasciare buchi, ero stanco. Vidi Piere arrivare alla solita ora, sorridente. Aveva le dita intrecciate sui dorsi delle mani che schiuse per porgermi dei rametti di lavanda. Quell’odore pungeva come il ricordo di chi, pur essendosene andato troppo lontano, non s’era fatto scordare. Nella mia testa, una serie di istantanee in cui rividi i campi viola di Bonnieaux.
Furono i tempi del liceo, quelli che mi costrinsero a fare i conti con le mie mancanze. Mi approcciavo al gruppo dei pari procacciandomi linfa dalle loro adolescenze ordinarie, come avrebbe fatto un parassita qualsiasi. A qualche anno dalla morte di mia madre sembravano trascorse poche ore, chi ha perso la propria mamma mi capirà. Rispettavo mio padre al passo delle sue concessioni, di questo lui ne era a conoscenza. Così, alla gita di fine anno scolastico, non si oppose. A permesso ottenuto, preparai lo zaino. Effetti personali, un CD player e “Ghost”, un disco autoprodotto che valeva lo stretto indispensabile. Come se, attratto da Kyle Soto col mento rivolto allo sterno e gli occhi alle sei corde, volessi farmi accompagnare giù negli inferi.
I Seahaven poggiavano le scarpe su territori post hardcore senza mai calpestarli seriamente. Sembravano ora ragazzini chiusi in un garage che era una stazione per i loro drammi, ora esseri spettrali avviluppati in stop and go e vocals indiscutibilmente bilanciati. Quella musica così poco compatta, però, mi dava un’idea della provenienza gracile di una band che portava addosso il colore teso della penitenza.
Bonnieaux si arrampicava sulla montagna accecata dal sole di Luglio. Sotto di noi, una pianura ricoperta di lavanda e d’estate. Era partita la raccolta degli steli, carichi di boccioli che sarebbero morti prima di schiudersi. Portando nelle orecchie i Seahaven ed il pallore del loro primo disco, in quei campi ci vidi un rincorrersi di fantasmi.
It’s hard to move with a cloud above your head/ It’s a father, it’s friends, it’s my equilibrium/ It’s a ghost.
Per quanto il fantasma non sia tangibile, è un’istanza che protegge la mente preservandone l’integrità. E lì, la mia mente era bisognosa di doverne inventare qualcuno.
«Grazie Piere», gli dissi consapevole della mia riconoscenza scarna, mentre si dissolveva il ricordo dei doppi colpi di cassa nascosti in Bottled.
Decisi di prendere quei rametti di lavanda come un pretesto per incontrare mio padre. Avrebbe ritrovato un po’ della sua soddisfazione, forse, nel riprodurli per talea. E si sarebbe accorto anche lui di un posto dove poter nascondere la faccia, nel mischiare la torba alla sabbia.
…continua…
(Antonia Salcuni)
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #2 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #3 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #4 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #5 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #6 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta