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In dieci anni Kendrick Lamar è diventato l’artista più importante del pianeta seguendo un percorso artistico davvero anomalo rispetto ai grandi nomi della musica contemporanea degli ultimi decenni . Tralasciando l’esordio a metà strada tra mixtape e LP “Section.80”, da “Good Kid, M.A.A.D. City” in poi è diventato, album dopo album, sempre più popolare con una proposta musicale che salvo alcuni singoli (“i”, “King Kunta”, “LOVE”, “LOYALTY”) ha assecondato sempre meno quello che un tempo si sarebbe etichettato come “easy listening”, il sound radiofonico del momento che oggi definiremmo hype.
Le hit in senso classico e generazionale in fondo sono rimaste quelle da “Good Kid, M.A.A.D. City” e la sua canzone manifesto, “Alright”, è per tanti aspetti la canzone più bella e significativa dello scorso decennio, ma con quel sound avant-jazz/progressive non è esattamente una traccia pensata e scritta per tutti pur essendo nei fatti riuscita a raggiungere tutti, senza barriere sociali e culturali. Un po’ come lui è riuscito a fare vincendo un Pulitzer ma riuscendo comunque a comunicare qualcosa alle comunità ai margini di tutte le South Los Angeles del mondo.
L’unica eccezione nella cerebrale parabola musicale di Kendrick Lamar è rappresentata, anche per effetto dei featuring, dalla parentesi della soundtrack di Black Panther che ha riempito questi lunghissimi 1.855 giorni che hanno separato “DAMN.” dal nuovo album, come ricorda nel conteggio delle barre introduttive di “United In Grief”, traccia d’apertura del disco che chiude un sodalizio quasi ventennale con TDE e che forse chissà chiuderà un cerchio nella carriera del quasi trentacinquenne di Compton.
Anticipato da un brano extra album e un video in deep fake che ha fatto molto parlare di sé, la parte 5 della sua saga “The Heart” con cui è solito fare un sommario di quanto racconterà nel disco a seguire, “Mr. Morale & The Big Steppers” si è palesato senza troppe anticipazioni con un titolo molto forte e misterioso, tra il biblico e l’esegetico. La parola “morale” ha gli stessi significati italiani, mentre “big steppers” definisce coloro che sollevano molto le gambe nei loro passi (un suono quello di questi passi di danza che ricorre in molte intro) ma nello slang southern definisce anche “coloro che hanno dietro un’arma da fuoco”.
Musicalmente non fa eccezioni: è un doppio LP che si sviluppa in 74 minuti a metà strada tra flashback e seduta psicoterapeutica e interludi (dei sermoni introspettivi affidati a guest) Le hit a presa rapida da potenziale singalong potrebbero diventare “N95”, brano killer da West Coast 3.0, primo e per ora unico singolo accompagnato da un video come sempre eccellente da lui diretto insieme a Dave Free, “Silent Hill” anche per la presenza di una superstar della generazione Z mumble rap come Kodak Black e “Count Me Out”, brano d’apertura del disco 2 che suona un po’ come la perfetta canzone d’amore rap che Kanye West non riesce a scrivere più da molti anni.
A prevalere su chorus, ritornelli e bridge da hit, è quel flow inconfondibile, estremamente “conscious” un torrente inarrestabile di parole, ricordi, dialoghi e riferimenti che a partire dalla folgorante “United In Grief” rapisce l’ascoltatore come nel migliore dei romanzi o dei poemi risucchiandolo in un’esperienza narrativa che solo Kendrick Lamar e pochi altri autori omologhi riescono oggigiorno a regalare. Le produzioni colpiscono come già in “DAMN.” per varietà ed eterogeneità: non strizzano troppo l’occhio all’iper contemporaneo né si adagiano sul gusto classico della West Coast o del G-Soul e integrano molti violini e orchestrazioni che danno un tocco più opera ed epico in alcuni passaggi. La lista di collaboratori è come sempre ricchissima. Oltre ai fuoriclasse Tae Beast, The Alchemist, and Pharrell Williams, non mancano i fedelissimi sodali come Sounwave, J.LBS, DJ Dahi, Bekon, Beach Noise, mentre si conquista una meritata vetrina il talentuoso compositore Duval Timothy tra i nomi di punta del nuovo sound pop elettronico londinese (quello della splendida ed evocativa “Crown”, per intenderci senza troppe descrizioni o etichette). Né mancano featuring di spessore inattesi: due superstar del calibro di Kodak Black (creditato in “Silent Hill”, ma co-oratore in “Rich – Interlude”) e Summer Walker (che nell’ideale sequel di LOYALTY “Purple Hearts” fa la Rihanna duetta con Kendrick e un Ghostface Killah nei panni di un predicatore infuocato), Amanda Reifer, Blsxt, Tanna Leone, Sam Dew, e infine dell’attrice protagonista di “Zola”, Taylour Paige, nel brano più strambo e a suo modo disturbante del doppio, “We Cry Together”, la messa in musica o per meglio dire in freestyle challenge di un litigio con la sua donna su un tappeto sonoro jazz e i sample di “June” di Florence & the Machine.
I riferimenti e gli scenari del suo sterminato universo lirico si arricchiscono di un nuovo filone narrativo, quello della famiglia a partire dal sensazionale scatto di copertina della fotografa Renell Madrano: tra i protagonisti del disco emerge la figura della sua fiancé Whitney Alford, voce narrante che fa da collante tra le parti del disco, quella della loro figlia – di cui non ha reso noto il nome – e del secondogenito apparentemente chiamato Enoch, da quanto si evincerebbe dal testo della cavalcata apocalittica “Worldwide Steppers”. Enoch è il nome del figlio di Caino, figura che ha sempre esercitato un’ambivalente attrazione allegorica nel suo immaginario, dal “good kid” che ha ispirato il significato del titolo del secondo album a “The Blacker The Berry” (da “To Pimp A Butterfly”), rivisitazione della parabola contemporanea in chiave antirazziale in cui immaginava di vendicare la morte di un amico (“You made me a killer: emancipation of a real nig*ga”) e parlava senza facili indulgenze né autoassoluzioni dell’ipocrisia nel manifestare per Black Lives Matter pur avendo spezzato o aver contribuito a spezzare altre vite afroamericane per l’affiliazione a determinate gang, una sua antica ossessione.
Il padre – e la mancanza del padre per migliaia di figli afroamericani proprio a causa delle violenze tra gang – la madre sono i protagonisti delle struggenti “Father Time” e “Mother I Sober” impreziosite rispettivamente dai featuring di Sampha e addirittura di Beth Gibbons dei Portishead dove senza filtri e con una lucidità autobiografica mai così vivida, Kendrick parla di mascolinità tossiche ripercorrendo traumi e abusi familiari, tortuosi percorsi di superamento di dipendenze sessuali e risvegli spirituali sulla scia degli insegnamenti del visionario maestro Eckhart Tolle reso celebre da Oprah Winfrey. Lo stesso Tolle introduce ripetendo in coro con la voce di Kendrick Lamar una sua massima (“il cuore gioca in modi che la mente non può capire”) un’altra traccia struggente, ad altissimo, quasi insostenibile, tasso emozionale: “Auntie Diaries”, dove il tema della famiglia abbraccia con toni crudi benché empatici quello del rispetto dell’identità di genere attraverso la storia molto allegorica di una zia e del suo percorso di transizione da donna a uomo e del parallelo percorso del cugino da Demetrius da uomo a donna. Un j’accuse molto intimo e mai retorico fino a qualche decennio impensabile nel mondo hip hop, ma rivolto alle ipocrisie della società e della comunità cristiana nei confronti delle persone trans. Il parallelismo tra la n-word e la f-word (usata per il termine dispregiativo e omo-transfobo “fagg*t”) diventate finalmente inaccettabili richiama un altro filone narrativo nuovo e contemporaneo del nuovo album, quello sul rapporto tra libertà di espressione, politicamente corretto e cancel culture su cui Kendrick Lamar prende una posizione come sempre molto personale e cervellotica: menzioni, provocazioni inframezzati da dialoghi e opinioni apparentemente personali si confondono tra fiction e veri e propri appelli. Nella super-kendrickiana “Savior” aleggia come uno spettro per poi essere direttamente chiamato in causa il guru e padre putativo Tupac, (come già in quel dialogo a due simulato nella traccia di chiusura di “To Pimp a Butterfly”, “The Mortal Man”) e i riferimenti si fanno improvvisamente meno criptici e strettamente legati al presente, da Putin che trasforma la realtà in incubi ai no vax cristiani che considerano il vaccino “marchio della Bestia”, come la star della NBA dei Nets Kyrie Irving, non l’unica star menzionata nelle 18 tracce, A vario titolo troverete R. Kelly paragonato ad Harvey Weinstein per la sua recente caduta in disgrazia in seguito alla condanna per abusi su minori e sfruttamento sessuali, la plateale rappacificazione di Kanye West Drake dopo il chiacchieratissimo e grottesco beef dello scorso anno, e poi ancora LeBron James, Future e J. Cole che usa come esempi di persone che pur avendo dei meriti – lui stesso non è escluso – non devono mai essere scambiati per dei “savior” (salvatori).
In termini più squisitamente musicali ricorre nelle produzioni e nelle seconde voci un membro illustre della famiglia allargata Lamar diventato negli ultimi due anni suo meritato protégé, Hykeem Carter aka Baby Keem, cugino rapper del 2000 esploso grazie alla hit “Family Ties” inclusa in “The Melodic Blue”, dove ospita il peraltro Kendrick anche nel brano “Range Brothers”. Baby Keem compare ufficialmente come featuring in “Savior”, ma è protagonista del sermone di interludio alla traccia e co-produttore nella già citata “N95” e in “Die Hard”, forse tra i rari momenti “solari” dove un pathos tetro e inquieto non prende mai il sopravvento, insieme a “Rich Spirit”.
Dolore, cordoglio, senso di colpa e soprattutto la potenza sovrannaturale dell’amore segnano le inquietudini e le altalene emotive di “Mr. Morale & the Big Steppers” tra free jazz, funk, West Coast hip hop, jazz-rap psichedelico, mini-suite neoclassiche e astratto e tantissimo rap in senso puro (contemporaneo ma senza tempo come dimostrano in maniera eloquente le due track che spiegano e completano il titolo). Si arriva ai titoli di coda che scorrono inesorabili su “Mirror”, outro ideale per un tema, quello dello specchio che ricorre anch’esso nelle sue storie. Lui usa Matrix per spiegarlo perché forse parlare della caverna di Platone non avrebbe raggiunto e toccato tutti, ma è una traccia che funge da perfetto anello di congiunzione o di ricongiungimento musicale con il venticinquenne MC che cercava di manomettere la sua anima da “good kid” e che oggi dopo una scalata verso il successo esemplare ed esaltante cerca costantemente di sfuggire alla tentazione di cedere a messaggi dal taglio profetico e universale: “Scusa se non ho salvato il mondo, ero troppo impegnato a ricostruire il mio”.
Ancora un inquieto e tormentato capolavoro, insomma, nell’esaltante parabola umana del “good kid” di Compton. Si potrebbe dire molto altro, ma non ci mancherà il tempo se ci toccherà aspettare altri 1.855 giorni per il prossimo album. Anche perché ci sono pochi dubbi sul fatto che quest’attesa sarà senz’altro ripagata dalla densità, dalla profondità e dalla qualità delle canzoni e delle sue storie.
Di questi tempi possiamo considerarlo uno dei rarissimi privilegi per la nostra generazione.
93/100