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Vi sarà sicuramente capitato di osservare lo scorrere dell’acqua di un ruscello al chiaro di luna: un fluire imperterrito che non è mai uguale a sé stesso, paradossalmente libero nei suoi confini e che si rivela sotto chiazze luminose sparse qua e là. Ecco, la musica di “Vermillion” di Kit Downes sgorga come l’acqua; e lo fa con tranquilla forza propulsiva e senza mai tracimare, ma semmai cambiandone il passo di volta in volta tra note ora più dense ora più accennate, e con improvvise aperture di luce.
Pianista e organista inglese di formazione non soltanto jazzistica ma anche avanguardistica, Downes giunge con questo “Vermillion” alla terza incisione per la celebre etichetta ECM, facendosi accompagnare per l’occasione dallo svedese Petter Eldh al contrabbasso e dal connazionale – nonché amico di vecchia data – James Maddren alla batteria. Ma se la formazione utilizzata è quanto di più noto ci sia in ambito jazzistico è la musica presentata a sorprendere, con il trio che pare un funambolo sul filo, sospeso com’è tra brani dalle strutture cameristiche che mantengono intatta la libertà improvvisativa del jazz, il tutto immerso in un’atmosfera dalle sonorità oniriche e vagamente sfuggenti.
Ed in effetti il disco è di una ambiguità seducente: “Vermillion” ci spalanca la porta verso un paesaggio sonoro bisbigliato ma vitale e brulicante, in cui finezza compositiva e naturalezza espressiva si incontrano felicemente. Già l’iniziale “Minus Monks” sorprende per la riuscita dell’intarsio sonoro tra melodie frammentate e improvvisi cambi di ritmo; e lo stesso può dirsi di “Plus Puls”, in cui alle terrose cavate del contrabbasso si uniscono scintillanti volate dai toni argentati del pianoforte. La musica di Downes si muove delicatamente, fermandosi fino quasi a raggomitolarsi su se stessa salvo poi dischiudersi con improvviso vigore verso sentieri inaspettati. In tutto questo, la ricchezza sonora del pianista inglese è sorprendente: in “Sister, Sister” – uno dei brani migliori del disco – si passa dagli accordi debussyniani dell’introduzione a quelli quasi folk del tema, con il clima meditabondo e lirico che è squarciato da una improvvisazione pianistica di lucida intensità; mentre in “Sadilands” e “Seceda” il musicista si rifà a toni decisamente più propri del linguaggio jazzistico, pur declinandoli a modo suo: il primo brano è un lampo post-bop – con veloce assolo di Edith al contrabbasso – sopra il quale aleggia lo spirito di Keith Jarrett; il secondo un valzer dai toni leggermente dissonanti.
Già, la dissonanza: l’uso che ne fa Downes è parsimonioso ma ficcante quel tanto che basta per aggiungere colori insoliti ai suoi schizzi acustici: sono pennellate che smuovono sottilmente la trama musicale, evocando quei toni misteriosi che sono connaturati a quell’atmosfera notturna di cui il disco stesso è impregnato. Lo si coglie in “Bobbi’s Song”, altra preziosa istantanea dall’atmosfera attendista, ben giocata tra scale ascendenti di pianoforte e la batteria spazzolata di Maddren, e in “Rolling Thunder”, dove poche note all’unisono di pianoforte e contrabbasso fendono l‘aria come un pendolo mentre la batteria amplia lo spazio sonoro con interventi coloristici in contrappunto. Un brano sorprendente che cammina in punta di piedi e che sembra uscito dalla penna del compositore minimalista Morton Feldman.
“Vermillion” è un disco intelligente che ha il grande pregio di esaltare la naturalezza presente anche nella musica più angolare, tanto da farla risultare come ineluttabile: proprio come lo scorrere di un torrente d’acqua sotto la luce lunare.
(74/100)
Foto in Home di Alex Bonney
(Edoardo Maggiolo)