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Non si presta a nessuna critica particolare il terzo e ultimo LP targato Melody’s Echo Chamber, il solo project della chanteuse pop psichedelica Melody Prochet. Dato che si tratta di una considerazione neutra, è giusto domandarsi se non sarebbe stata meglio (ovviamente è un ossimoro) una stroncatura. Ma in verità dopo avere ascoltato il disco diverse volte non ci trovo nessun punto debole, ritengo che l’artista abbia fatto esattamente quello che voleva fare: un buon prodotto pop, forse con più di un piede nello scorso decennio e per questo interesserà e piacerà più a vecchi ascoltatori invece che richiamarne dei nuovi, ma che funziona, è confezionato bene. Che non significa sia il risultato di un lavoro in studio particolarmente scientifico e/o cerebrale, ma più semplicemente che è stato realizzato con le idee chiare.
Da questo punto di vista “Emotional Eternal” (Domino) è un disco sicuramente non buono quanto l’esordio del 2012, che ti pioveva addosso come una meravigliosa cascata di musica pop psichedelica, ma è sicuramente più consapevole del suo predecessore (“Bon Voyage”, 2018). Realizzato con la produzione di Reine Fiske dei Dungen (ma collaboratore variamente di Fire! Orchestra, Motorpsycho, Trad Gras Och Stenar, ecc. ecc.), “Emotional Eternal” è un disco in cui da protagonista del decennio scorso l’artista declina un chamber pop che è poi una rivisitazione del pop francese anni sessanta-settanta, ricco di atmosfere e dimensioni lounge e caleidoscopiche. Ovviamente dentro ci sono anche sfumature dream pop che del resto con il ritorno dei Beach House si può dire che siamo in pieno revival e il gioco è fatto.
Melody ha una bella voce che con il giusto dosaggio di effetti fa funzionare in maniera celestiale canzoni pop tropicalia shakerate come la title-track, il walzer etereo “Personal Message”, la retrò “A Slow Dawning of Peace” e “Alma The Voyage”, che è se vogliamo il momento apoteosi del disco con richiami Tame Impala a bassa intensità (così come “Pyramids In The Clouds”). Qua e là arricchisce con synth vaporosi (“Looking Backward”) e loop di basso più o meno vigorosi (di nuovo “Pyramids In The Clouds”). Sono inevitabili come detto accostamenti a Beach House (sempre “Looking Backward”) e a un certo pop visionario stile Jacco Gardner.
Il giudizio finale come si può dedurre dalla premessa non può che essere sufficiente, tanto più che appare come uscita fuori tempo massimo. Devo dire tuttavia che lei come altri artisti che qui ho citato in determinati contesti da club come da serate estive open air con quel freschetto della seconda-terza serata, hanno saputo regalare belle sensazioni. Il disco non è alla fine imprescindibile ma con il ritorno alla vita dopo il Covid-19 o nonostante il Covid-19 (fate vobis) un salto a un suo concerto lo farei volentieri.
63/100