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Alla fine di gennaio ero lì con questa bozza di un my2cents sulla cosa di Ciao 2020/21. Poi l’ho cestinata perché mi sembrava (e tecnicamente lo era) fuori tempo massimo. Ero partito carico ma dopo un po’ mi ero visto troppo livoroso nel prendere le difese di un genere (l’italodisco, grossomodo), di un’era, di uno scenario culturale (a cui tendo a sentirmi legato) solo perché invasi goffamente da dei russi con le parrucche. In realtà, nelle intenzioni avrei voluto scrivere molto dei miei anni ’80 di bambino e poco dei russi con le parrucche che vengono a prendersi una cosa che sento mia e la storpiano, la fraintendono e poi la rivendono come atto di stima e amicizia verso un paese e i suoi riferimenti culturali pop. Inoltre, mi son detto (era ancora gennaio, eh!): “cosa gliene fregherà dei russi a uno che legge questa cosa nel 2022?”. O meglio, cosa gliene fregherà di questo modo superficiale di guardare gli altri contesti (culturali e nazionali) e dare rigidamente per scontato che gli altri non potranno che apprezzare/accettare (attribuendo anche a questi altri, la stessa superficialità e acriticità)?
Ci ripenso ora che è l’inizio di maggio e anche a non caricarla di significati che non ha, mi gira un po’ la testa.
Oh, va pure aggiunto che, verosimilmente, il contesto di Urgant e di quella produzione è distante anni luce dalle posizioni e dalle scelte politiche e belliche di quel paese. Ci sono state anche prese di posizione che fanno onore al “nostro” e probabilmente ci sono riferimenti tra le pieghe dello show che un non russo come me non sa cogliere.
Ma la sostanza della gestione grezza e superficiale di un patrimonio (quello ultrapop), di rapporti e di storie è un dato. Poi c’è una difficoltà straziante a saper far ridere ma quello è un altro aspetto ancora.
Non ho mai capito (dal vecchio “Ciao 2020”) perché in così tanti fra di noi ci siano rimasti sotto, trovandoci un valore parodistico magari non tanto sofisticato ma molto fedele. Fedele a che cosa? Forse una nuance di fedeltà a Drive-In e a Colpo Grosso ce la posso anche scorgere ma non parliamo di musica. Anzi, parliamone.
Il programma non è solo musica, ma la musica è in qualche modo centrale. Si vuole parodiare una vecchia idea di “festival televisivo” e musicalmente si guarda ad un’area che nelle intenzioni potrebbe andare da Doctor’s Cat, Hugh Bullen e My Mine fino al Raf di “Self Control” passando da Diana Est.
Quelle produzioni italiane così sospese tra futurismo della preistoria, velleità internazionali, tradizione melodica del ‘900, rielaborazione della discomusic erano e sono un terreno ben più ricco di quello delle frequenti letture banalizzanti.
Volendola un po’ allargare, non avranno rappresentato un paese ma hanno raccontato un modo fantasioso, ispirato e spaccone di guardare in avanti, immaginando se stessi capaci di scommettere sull’improbabile. E per chi vuole rileggere quel mondo con ironia, la parte più insidiosa di tutte è che l’ironia, l’autoironia, è già insita in quel quadro, come un elemento imprescindibile, mai troppo esposto, mai davvero nascosto. Il rituale quesito sul “quanto ci sei e quanto ci fai” è praticamente applicabile a tutti i contenuti e a tutti i soggetti di quell’universo lì. E ne costituisce l’essenza. Ogni storia, ogni personaggio di quel mondo e ogni canzone vuole suonare sia come investimento totale che come estemporaneità buttata un po’ via.
Una parodia di questa roba se è puntuale gioca su tante facce, tra cui l’emotività sincera e appassionata e l’autoreferenzialità un po’ laccata travestita da distacco.
Ecco, la cosa della TV russa mi pare un filo distante da questo. Ci sono tante parrucche, tanti sintetizzatori che tendono a girare a vuoto (a dispetto dell’efficacia di quelli di allora), c’è tanto idioma italico (quando ai tempi imperava il tentativo di parlare come gli inglesi), c’è una gestualità tradizionale che era proprio ciò da cui si cercava di emanciparsi.
Io lo dico spesso che quando un popolo (o una piccolissima parte di esso) fa l’imitazione di un altro, per magia lascia emergere la propria vera essenza invece che un quadro compiuto dell’imitato. Mi spiego meglio: penso che ogni volta che facciamo il verso ai francesi, risultiamo drammaticamente italianissimi.
E allora, siccome siamo a maggio e non più a gennaio, ci è capitato in questi mesi di vedere svariati frammenti della monolitica TV russa, nella fattispecie talk show che all’interno di una cornice superficiale e imparruccata affrontano la tragedia. Talk show abbastanza stranianti che sembrano venire dal metaverso triste. Ma solo a me sono parsi in una dadaista continuità con Ciao 2021? Nei toni, nella prossemica, negli sguardi, nella rigidità, nell’uso dell’italiano in un caso diventato celebre, nel confine tra farsa e tragedia cosmica imminente, persino nelle luci di scena. Ma infatti mi sembrava che non fosse Drive-In, così come quella non era la musica che sentivo da bambino e “Bionda Morta” non fa poi così ridere, dopotutto. Riguardarlo ora, dopo 4 mesi, non dico sia vedere tecnicamente un horror ma è una cosa che non farei da solo di notte, ecco.
Ciao 2022.
(Marco Bachini)