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Esiste un motivo specifico per parlare oggi dei The The? Il buon Matt Johnson, mente, anima e corpo della band, ha passato degli anni duri, come tutti noi del resto. Si è districato tra lutti, ansie complottiste ed un’infezione alla gola dagli effetti cronenberghiani, che ce lo ha quasi portato via. Ma resiste. Come tutti noi, si spera. Nell’autunno dell’anno passato ha fatto il suo ritorno sulle scene, dando alle stampe un monumentale album dal vivo sul suo ultimo concerto alla Royal Albert Hall del 2018, ed ora sono in molti ad aspettare che pubblichi del nuovo materiale.
Non è certo musica calda quella dei The The, forse non la più adatta per queste giornate di estate anticipata. Eppure, se si pensa al lascito di questa band, a molti vengono in mente soprattutto le nevrosi urbane di “Infected”, disco mostruosamente contemporaneo nonostante un sound che più anni ’80 non si può. Invece potrebbe essere più giusto, e terapeutico, recuperare l’esordio di “Soul Mining”.
Su quest’album è stato scritto ampiamente, ma resta tuttora difficile inquadrarlo. Synth-pop sperimentale, raffinata new-wave, post-punk riflessivo; come spesso capita le definizioni si sprecano, ma non sono in grado di restituirne il valore. È altrettanto vero che spesso viene tralasciato uno dei suoi meriti più grandi: essere un’opera alla portata di tutti. E non è impresa da poco, considerato il piglio oscuro di alcuni testi (“The Twilight Hour” su tutti), la voce a tratti rantolante a tratti stridula di Matt Johnson, oppure l’incedere sincopato e marziale di alcuni brani (si veda l’apertura col piede sull’acceleratore di “I’ve Been Waiting For Tomorrow All My Life” e di nuovo “The Twilight Hour”). Altrove, come nella title-track, l’artista si muove con passo felpato nei meandri delle delusioni amorose, con un cantato a malapena sussurrato e un tappeto sonoro di strumenti indistinguibili, che culla e ipnotizza. Le otto tracce di “Soul Mining” strabiliano per la varietà delle trovate melodiche, basti pensare a “Giant”, pezzo che prima fluttua, poi cresce, e infine straborda in un fiume di suggestioni afro-pop alla Paul Simon (anche se l’imprescindibile “Graceland” sarebbe arrivato solo due anni dopo…).
Dopo una descrizione di questo tipo sarebbe facile etichettare “Soul Mining” come un ennesimo fortunato esperimento di musica arty, che però si fatica a mettere nel lettore. Invece la sua grandezza sta proprio nell’essere un album che mette l’ascoltatore al centro del suo viaggio.
La più grande testimonianza di quanto appena scritto, sono il tripudio melodico di “Uncertain Smile” e “This is The Day”. Se la prima regala ai posteri un refrain impossibile da dimenticare, la perfezione armonica della seconda è degna di passare alla storia come uno degli episodi più significativi degli anni ’80 e, perché no, – ci piace osare – di tutta la musica pop. Come l’intero disco, del resto.