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Dunque, come si sa, “Running Up That Hill” di Kate Bush rivive una fase di grossa esposizione per via di Stranger Things S4 e per il primo posto nella classifica delle tracce più ascoltate su Spotify.
Premesso che “Running Up That Hill” dovrebbe essere patrimonio dell’UNESCO per motivi piuttosto lampanti, faccio abbastanza fatica a vedere una “notizia” nel fatto che una canzone stratosferica e molto famosa (per quanto datata) una volta inserita in un contesto Netflix dal successo sicuro, poi viaggi a mille a livello di streaming.
Sì, perché Stranger Things e la sua ben connotata colonna sonora (dalle tracce rétro ben selezionate alle musiche originali di Dixon e Stein e ad altre cose tipo “Italian Gigolo” di Vincenzo Salvia) è da quattro stagioni un appuntamento al livello del Super Bowl.
E allora mi colpisce un po’ l’enfasi con cui si riporta la scelta di quella canzone, cui è riservato un ruolo preminente proprio in senso strutturale. Assodato che la colonna sonora di Stranger Things, come ragione sociale è prevalentemente il mondo 80’s pop nelle sue tante sfaccettature, mi stupirei dell’assenza di quella categoria lì di canzoni.
Poi, che i ragazzi non la conoscano e la scoprano oggi (ammesso che accada questo) è cosa magnifica ma da quel che mi risulta le serie le guardano parecchio anche i quarantenni e i cinquantenni.
Perché poi, se quella è la notizia, il “sottotitolo” sarebbe in definitiva una specie di “rivelazione” sui gusti (ben celati) dei ragazzi.
L’ assunto è che sebbene ascoltino quelle robe urban, trap, emo rap, quando poi un giorno gli darai Kate Bush vedrai che tutto cambierà! Tutto si ristabilirà, perché, in fondo in fondo “loro sono come noi”.
Ecco, io direi che c’è qualcosa di parecchio sbagliato a tutti i livelli (oltre che discretamente miope), nell’interpretare le cose in questa maniera.
Che poi è lo stesso schema di analisi su cui si regge l’80% degli articoli pro Måneskin, solo che lì, forse è tutto ancora più sbagliato.
Ora, un altro aspetto debole della faccenda è il fatto che Spotify sia il parametro, l’esame di laboratorio, il togato investito a sancire quale sia l”approccio vincente” alla selezione della musica.
Voglio dire, è quello stesso Spotify che da quando lo conosco mi suggerisce giustamente le canzoni belle e famose come “Running Up That Hill” ogni tre per due. E sia chiaro, Spotify è quasi imprescindibile, mi conosce benino e il fatto che mi proponga musica sensata è una specie di gentilezza da uno sconosciuto che in qualche maniera mi commuove anche. Non sto però ad aprire il consueto discorso su come sia difficile confrontare cose che necessitano di strumenti di misura diversi come l’acquisto di un disco nell’85 e lo streammare un link di Facebook o il non skippare una playlist che ti porge Spotify nel 2022.
Tutto questo per dire che si possono ancora distinguere le scelte canoniche (e belle) da quelle un po’ più azzardate (e forse belline lo stesso). E quando scrivo azzardate non intendo sofisticate o ricercate, eh. Certo, quando non vai così tanto lontano dal tragitto che farebbe anche il tale algoritmo hai probabilmente la riprova che hai lavorato in modo congruo, efficace e soprattutto diritto. Cioè non hai preso troppi sentieri incerti. Tra l’altro, per mio gusto, la colonna sonora di Stranger Things funziona al meglio proprio quando sembra perdersi.
Ma soprattutto lascerei in pace concetti che hanno a che fare con lo spostare gli equilibri e sparigliare le carte nella fruizione della musica e nei gusti della gente.
E questa non è per forza una critica alla Felder (la music supervisor di Stranger Things) che evidentemente lavora in modo incisivo e sa far tornare i conti ma piuttosto alla maniera in cui gli effetti di un efficiente operato (suo come di altri) vengano di solito letti.
Per esempio, se non erro fu sua la scelta di mettere “Blood and Roses” degli Smithereens in una delle scene iniziali di un vecchio filmetto innocuo con Lisa Kudrow e Mira Sorvino (Romy And Michelle).
E quella è l’unica cosa che credo si possa ricordare di quel film. Ok, si sta parlando di una canzone assai rappresentativa per quella band (gli Smithereens, appunto) ma lì fu perfetta e chi decise nel ’98 di mettercela lo fece per una logica narrativamente valida quanto strettamente personale.
Ed è questo ciò che “semplicemente” chiederei ogni volta che qualcuno fosse a mettere della musica da qualche parte. Gli direi: “non darmi la musica che mi aspetto ma quella che ha senso per te, per farmi vedere quel che vedi te”.
Vale per la colonna sonora di un film, di una serie, vale per la musica nel tuo spazio condiviso o nella tua soffitta polverosa.
Tornando ai film, penso a quella scena di Mommy di Xavier Dolan in cui l’emotività la innesca una canzone di Céline Dion. Sì, sì, quella Céline Dion lì, non un’omonima. Quella del saggio di Carl Wilson (Musica di merda, 2007). Forse in un film canadese non è una scelta così audace o forse, al contrario, è una mossa ancora più autolesionista di quanto non sia autolesionista il protagonista ed ecco che “On Ne Change Pas” acquista assurdamente un senso e una bellezza insperati. E, su un altro piano, come suona bene quella “trashata” di Ssion (“Psy-Chic“) a far da tappeto a un grottesco Ben Stiller finto giovane in “While We’re Young”!?
A me piacerebbe che a qualche protagonista di un serie tipo quella in questione gli partisse la brocca per “I Met The Beast” (1985) dei Martin Dupont, diobono.
(Marco Bachini)