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Nelle storie di mare non sempre viene dato molto spazio alla vita a terra; anzi, questo lato dell’esistenza marinaresca viene spesso visto come secondario, sorta di inquieta parentesi di necessità tra un viaggio e l’altro. La cosa è capibile: lo spirito del marinaio è volto al mare, alla sua esplorazione; eppure, è proprio a terra che si vivono esperienze che formano il bagaglio di ogni viaggio, un lascito di pensieri e memorie da ricordare, dimenticare o arricchire ad ogni tappa. Con “Rade”, ultimo disco di Paolo Angeli, il musicista sardo rivendica l’importanza dei momenti che seguono un approdo, quando il corpo ritorna piantato sul terreno e non viene più cullato dall’imprevedibile rollio marino. Le rade, infatti, sono quelle preziose insenature al riparo da venti e maree dove le barche possono attraccare, permettendo cosi ai loro timonieri di potersi prendere cura delle imbarcazioni, oltre che di sé stessi.
Nel suo vagare acustico per il Mediterraneo, Angeli ci conduce in diverse rade e in altrettanti porti, dove i suoni, i sapori, i volti e i profumi di ogni attracco sono tanto propri quanto comuni tra loro; e insieme intonano un unico, liturgico canto. Canto che per Angeli ha i suoni della lingua sarda: come in “Ottava”, dove la voce ispirata alla tradizione isolana si mescola a respiri e tramestii di corde, e dove a dare profondità sonora sono le cavate basse della sua chitarra sarda. Già, perché Angeli suona uno strumento unico nel suo genere e che da solo è come un piccolo ensemble: una “chitarra sarda preparata” a diciotto corde e da lui modificata. Questa ha il dono mimetico dei pesci, riuscendo contemporaneamente a suonare come una chitarra classica, a emettere note basse degne di un contrabbasso e a tendersi come un violoncello; e non si nega nemmeno sferzate tali e quali quelle di una chitarra elettrica. Quanto al ritmo, beh…dovete chiedere ai piedi del musicista.
E proprio dal ritmo parte “Azhar”, una danza al battito di flamenco e all’odore di pesco, con un iniziale scambio acustico ed elettrico che poi muta in un ballo andaluso e che dopo i primi passaggi pizzicati si intensifica a poco a poco fino a divenire un frenetico volteggio; e con la mente siamo immediatamente li, nel porto, vero crocevia alla salsedine dove chi arriva e chi parte lascia senza volerlo una traccia di sé. E se apriamo le orecchie sentiamo anche i timbri dell’oriente, come in “Baklawa” – nome di un dessert della tradizione ottomana, cosi carico di zuccheri da darti energia per tutta la giornata –: Angeli qui ci conduce per bettole e taverne, descrivendone la girandola umana fatta di bevitori e musicanti provenienti da chissà dove. A questi e al loro incontro si ispira il musicista sardo: il ritmo dinoccolato fonde chincaglierie iberiche a sentori nord-africani, il fraseggio passa poi di nuovo per fumosi incontri elettroacustici, inframezzati da un brontolio di voci che si legano e si slegano come quelle di due avventori; emerge all’improvviso una melodia bisbigliata dai toni balcanici che nel finale si apre in un’epica post – rock avvolta in una nuvola salmastra. Sono brani lunghi e in costante mutamento, ma che si risolvono con sapiente gusto compositivo: una babele sonora che invita ad immergersi e a perdersi nella sua cristallina libertà.
Nel racconto dell’album ci sono anche dei capitoli dedicati ad altri momenti della vita vicino all’acqua: “Pece” è un’istantanea ritmica alla maniera del gamelan che rimanda a John Cage, con la chitarra usata come percussione e con il ritmo che ricorda lo spennellare per ungere lo scafo; ”Secche” è un dolce interludio contemplativo per chitarra classica dalle corde incrostate di sale, con teneri arpeggi e accordi in leggera dissonanza. Diversamente, “Tejalone” è l’unico momento del disco dove il paesaggio narrativo si distanzia dalla costa; il nome del titolo è quello della cima montuosa dell’isola di Caprera. Qui le corde medie e basse scivolano ininterrotte in un saliscendi dinamico, suonando come passi che si affrettano man mano che si procede per il sentiero sul dorso della cima; quando poi si conquista la vetta e si domina il mare circostante, il brano si apre in un formidabile staccato esultante.
Ma la vita a terra è temporanea: la titletrack parla di nuove partenze, e in particolare di quando chi naviga si trova in quel ”mare a metà” che non é né la costa, né il mare aperto; luogo dal quale si può ancora intravedere e udire la vita sfocata e tremolante della terraferma, con le sue figure cotte dal sole e dagli aspri destini. E’ il richiamo del porto, che qui Angeli descrive con trasporto ed emotività con il suo canto sempre ispirato alla tradizione folklorica della Sardegna e con un vorticoso crescendo chitarristico noise dalle progressioni semplicissime che mescola pennate acustiche e distorsioni elettriche voluminose con singolare efficacia. E’ un vapore luminoso che si dissolve poi in “Niebla”, due minuti e mezzo di brume sonore ambientali e umori avanguardistici per un nuovo approdo reso incerto dalle nebbie mattutine.
Con “Rade”, Paolo Angeli ci dona una nuova prospettiva della sua visione pan-mediterranea, unendo la ricerca musicale ad una passione bruciante; e lo fa con un gusto tale da permetterci di viaggiare con la mente e con lo spirito tra luoghi suggeriti e reali. Un lavoro riuscitissimo e di profonda conoscenza e originalità, il cui ascolto ci lascia la curiosità di poter un giorno vedere questi spazi con i nostri occhi, magari indossando una maglia a righe…
85/100
(Edoardo Maggiolo)