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Chi ha avuto la possibilità e il cuore di restare a Barcelona per dodici giorni ha vissuto sulla propria pelle un’esperienza difficile da ripetere (anche fisicamente) assaporando le due settimane che archiviano a tutti gli effetti due anni angoscianti di eventi annullati, rinviati, limitati e ridimensionati per motivi pandemici. Da più di un decennio, da quando ha fatto il passo decisivo per trasformarsi da festival di nicchia a festival medio-grande sempre attento a quali headliner chiamare e a quali evitare come la peste per costruirsi una peculiare linea artistica, il Primavera Sound apre non solo simbolicamente la stagione dei festival europei estivi riaccogliendo e accogliendo per la prima volta in Europa il meglio degli act in circolazione a fine primavera.
I numeri sono stati davvero altisonanti: circa mezzo milione di presenze in due weekend (circa ventimila in più nel secondo weekend) per quasi 500 act che si sono alternati nei weekend del Parc del Forum e in quattordici club di varie dimensioni nelle giornate centrali (la Sala Apolo e La (2) dell’ Apolo, Razzmatazz 1 e Razzmatazz 2, Sidecar, Paral·lel 62, RED58, La Textil, La Nau, LAUT, Bóveda e VOL, oltre alla prima venue del Primavera, il Poble Espanyol sulla collina di Montjuic e la adiacente Sala Upload). Una scelta dal forte valore simbolico per sostenere le realtà che più hanno sofferto in questi due anni che ha dato un respiro più urbano alla programmazione in un centro città mai invaso come in passato da persone con al polso il braccialetto del Primavera Sound. E che ha complicato non poco la macchina organizzativa, anche perché gli staff dei club spesso non erano a conoscenza dei meccanismi di prelazione e delle corsie preferenziali in base al tipo di abbonamento e braccialetto. Ma aver avuto la possibilità di assistere a concerti di artisti medio-grandi in location intime per chi è riuscito a entrare è stato un regalo non da poco. Per chi come il sottoscritto ha voluto seguire dei percorsi più omogenei e tematici nelle serate infrasettimanali, resteranno nel cuore quattro serate: il Trance Party organizzato da Evian Christ in un surriscaldato – anche per l’aria condizionata rotta Red58 (con tra gli altri Total Freedom, Oli XL, Mechatok, Anne Savage, Doss); il party al Laut Bar del local John Talabot (con gli italiani Valentina Magaletti, Sabla e Sara Berts) e di Young, già nota come Young Turks (la label che ha lanciato the xx e fka Twigs) con gli ottimi Two Shell (prendete nota) da sempre legato a doppio filo con il festival catalan; la serata del Razzmatazz dedicata al collettivo YEAR0001 con una delle icone generazionale di migliaia di sadboy / sadgirl / sad young people (tutti silenziosamente in fila per almeno cinque isolati), Yung Lean affiancato dalla Drain Gang formata da Bladee, Ecco2k e Thaiboy Digital, e il resto dei sodali Rift, Dark0, Femi, Lokey e Torus ci ha fatto capire molto del successo – meritato – della gang svedese più influente del pianeta; lo straripante takeover di Nyege Nyege sempre al Laut che ha offerto uno spaccato della sfavillante scena legata al collettivo di Kampala ospitando gli irrefrenabili set di Mbodj, Chrisman, Turkana, Travella, Authentically Plastic e le performance dei più noti Duma, Rayzor, MC Yallah & Debmaster e Otim Alpha (nel pubblico a spassarsela Damon Albarn, accorso nel piccolo club alle spalle dell’Apolo).
L’unica pecca è stata quella di dover scegliere tra l’avanguardia africana (molto rappresentata anche nella programmazione dei weekend, finalmente) e un’altra serata tematica, quella di PC Music al Razzmatazz 2. Ma, tra fame di serate e capienze ridotte rispetto alla quantità di persone rimaste a Barcellona nelle giornate del Primavera à la Ciutat, non sempre i piani potevano essere messi in pratica. L’impressione era quella di vivere in un piccolo SXSW di Barcellona, ma sicuramente con qualche spazio aperto più ampio tutti sarebbero rimasti soddisfatti.
Fin dal primo giorno ospitato nel suggestivo spazio outdoor del Poble Espanyol si è capito che l’astinenza da live era fuori controllo. Se un tempo i circa duemila posti delle due Sale Apolo bastavano e avanzavano a contenere gli spettatori della classica giornata di anteprima e di quella di chiusura, i cinquemila posti del Poble sono sembrati subito troppo pochi. Code su code e sciami di persone nella zona di Plaça d’Espanya avrebbero fatto da preludio a una delle giornate più difficili della storia un festival noto in tutta Europa per un livello di organizzazione che in altri tempi si sarebbe definita “tedesca”, ma che chi conosce la Spagna non farebbe fatica a definire “catalana”.
Giovedì 2 giugno sarà ricordata come la giornata delle code a causa dell’imprevedibile e imprevisto arrivo di circa 40mila persone nelle primissime ore del festival che ha mandato in tilt bar e punti di distribuzione dell’acqua provocando a catena una serie di code che si sono esaurite soltanto a fine serata. L’organizzazione si è scusata senza mezzi termini, ha risolto internamente dei problemi relativi al bar e incredibilmente nelle successive cinque giornate al Parc, malgrado un numero di spettatori superiore alla prima difficilissima giornata, tutto è tornato a funzionare come in passato. Livello di problem solving davvero fuori dal normale e le allusioni a overbooking e altri stratagemmi sono presto evaporate dando una risposta coi fatti a qualche articolo piccato della stampa europea e persino di quella italiana, come se fossimo maestri di organizzazione di festival europei di questo spessore. Musicalmente sarebbe stata la giornata del ritorno dei Pavement al Primavera dopo dodici anni (e il concomitante clash generazione con i 100 gecs, il nome della generazione Z più influente e iconico tra i presenti nei due weekend). Non l’headliner più imponente della storia e in fondo il Primavera ci ha abituato a queste scelte simboliche (Neutral Milk Hotel, My Bloody Valentine, Pulp): un regalo di qualità ai vecchi fan del festival, quelli che hanno dato fiducia dopo aver acquistato il biglietto nel 2019 e che hanno partecipato soprattutto al primo weekend.
Il secondo ha avuto una prevalenza di pubblico britannica e statunitense, molto under 30, rendendo davvero inedita l’atmosfera del Parc del Forum. Per chi ha memoria degli occasionali che arrivavano per certi vecchi classici e nelle notti bravi a caccia di cassa dritta, possiamo dire senza timore di essere smentiti che questo pubblico bello, giovane, colorato e abituato a festival non ci dispiace affatto. E non dispiace nemmeno agli artisti quando anche negli stage più piccoli la risposta di pubblico è sopra le aspettative, in un’atmosfera è rilassata, “safe” e coinvolgente.
Per la prima volta affiancati all’americana gli stage maggiori Estrella Damn e Pull&Bear hanno regalato con un colpo d’occhio un po’ strano e decentrato ma che ha offerto qualche vantaggio migliore a livello di audio per chi assisteva agli show da lontano. A livello di flussi di pubblico, da sempre uno dei nodi più complessi in un festival che deve spaccare il secondo per evitare intoppi, non è ancora chiaro come possa aver giovato.
Quella del 2022 è stata un’edizione complicata dalle defezioni e dove obiettivamente, a prescindere da quella nota da mesi dei Massive Attack e – nel primo dei due weekend causa Covid – degli Strokes, gli unici due nomi davvero grandi sono quelli di due popstar da Primavera “new normal” per usare la definizione della precedente edizione che aveva rimescolato le carte abbattendo definitivamente ogni differenza di genere e provenienza geografica nella line-up e facendo storcere il naso ai puristi: Dua Lipa e Megan Thee Stallion. Ed effettivamente entrambe hanno avuto le risposte di pubblico più significative con una cornice di pubblico forse mai vista (in assoluto nemmeno dalla seconda nella sua giovane carriera) nello spazio riservato ai palchi principali. Nemmeno con gli stessi Strokes che tornavano al Primavera dopo sette anni.
Nemmeno con Nick Cave & the Bad Seeds che al solito ha raso al suolo la platea con una frecciatina memorabile prima di “I Need You”: «dedico questa canzone ai miei figli Luke ed Earl anche se probabilmente andrebbero a vedere i Bauhaus» che si esibivano senza deludere quasi in contemporanea su un altro palco. Nemmeno con i Gorillaz che hanno impreziosito due performance super, dai tratti fiabeschi e apocalittici che solo loro, ospitando sul palco Mos Def, i De La Soul, Fatoumata Diawara, Slowthai e Moonchild Sanelly. Nemmeno con big ancora più insoliti e finalmente confermati in cartellone come gli inossidabili Beck e M.I.A.. Nemmeno con altri habitué come i Phoenix o i Tame Impala (che nel primo weekend hanno omaggiato gli assenti Strokes con una cover di “Last Nite” suonata meglio di come avrebbero fatto gli Strokes) o con gli Yeah Yeah Yeahs in una forma smagliante che i concittadini e co-headliner Interpol possono solo invidiare (il momento migliore è stata la scelta della traccia prologo, una delle canzoni della soundtrack di Gomorra a cura dei Mokadelic, perfetta per lo sfondo del palco, gli stessi grattacieli di Barcelona scenario di una puntata della prima stagione).
Nemmeno con act che sono “cresciuti” all’interno del Primavera con una gavetta partita dai palchi minori come Run The Jewels (che si sono esibiti con un live alla loro altezza nonostante la laringite che ha colpito El-P avesse rimesso a guidare lo show Killer Mike), l’eccellente Tyler, The Creator e la sua scenografia mozzafiato da musical 3D o la stella inglese Jorja Smith che ha sfidato i King Gizzard & the Lizard Wizard (presenzialisti diventati inevitabilmente meme) in quanto a numero di performance nei dodici giorni (chi c’era all’Apolo a vederla in chiave unplugged potrà raccontarlo tra qualche anno). In questo caso Little Simz che ha incantato l’arena Cupra con una performance stellare si prepara senz’altro a seguirne la scia e senza polemica ha ricordato che eravamo in 300 a vederla nel piccolissimo palco Seat nel 2019.
I due palchi in spiaggia del Primavera Bits sono diventati a tutti gli effetti dei palchi medio-grandi (vedere Lorenzo Senni esibirsi lì è stato emozionante) e hanno faticato soltanto nel primo weekend, complice un’offerta non troppo facile e più sbilanciata verso l’elettronica, già molto ben rappresentata nei due spazi del Parc dalla Boiler Room esterna (con dj e producer in grado di far ballare anche i meno avvezzi) e dal palco indoor di NTS Radio (con una programmazione da festival underground parallelo davvero pregevole), un tempo dedicato ai concerti segreti e poi ai soundsystem e agli after del festival.
Nel secondo weekend il pubblico si è distribuito meglio grazie anche a nomi più accattivanti sia per il pubblico “urban” che per il preponderante pubblico britannico e americano come Charli XCX e Burna Boy che in Italia, soprattutto nel secondo caso, dicono poco ma che ha fatto numeri molto più considerevoli dei concomitanti The Jesus & Mary Chain (da cancellare, a differenza dei Bauhaus) e addirittura di The Smile, il nuovo progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood con il batterista dei Sons Of Kemet che ha regalato il live che ci si aspettava dopo aver ascoltato il disco. Complesso, rarefatto e d’impatto.
Com’è semplice immaginare è davvero difficile ripercorrere tutti i momenti in un’offerta così vasta.
Tralasciando le performance deludenti è doveroso segnalare a vario titolo, qualora passassero dalle vostre parti, e in ordine di apparizione il figlio della old school made in New York Joey Badass, i lanciatissimi The Armed, gli Autechre al buio nell’Auditori, gli ormai rodati e prontissimi alle grandi platee Fontaines DC, un introspettivo Earl, i soliti Beach House della quasi buona notte, i solidissimi Squid, un incendiario Playboi Carti (anche lui in Cupra molto sotto la capienza massima), i Bicep e un live molto più spinto del previsto, i potentissimi Murder Capital e Viagra Boys, le predestinate dell’R&B Celeste, ENNY, Erika De Casier, la promettente spagnola di PAN Marina Herlop, il performer nato Genesis Osuwu, la sinuosa Sampa the Great e tra le centinaia di djset (si diceva, un festival nel festival per gli appassionati), su tutti meritano lodi e tributi gli inossidabili Optimo, le imprevedibili Crystallmess e Afrodeutsche, mumdance, Zuli, Sherelle in b2b con Tim Reaper, Anz, il set a quattro mani AceMoma (AceMo e Moma Ready), l’esplosivo Danny L Harle, l’ubriacante meltin pop latino Sangre Nueva formata da DJ Python, Florentino e Kelman Duran e il sempre infallibile Ben Ufo che ha chiuso all’alba con un set da fuoriclasse che resterà scolpito nella memoria di chi ha voluto esaurire in spiaggia le ultime energie del primo weekend (nel secondo è toccato al redivivo Goldie). Tra i momenti più da festival, per fortuna non sconfinati nella tragedia, la voragine apertasi nel pavimento in legno della Boiler Room il primo venerdì e che si è prestato a molteplici ironie dati i volumi che tiravano giù tutto (e in parte disturbando gli act più tranquilli dell’adiacente palco Plenitude) e l’”esibizione” di Jay Electronica, tra gli act hip hop più attesi, ma che si è rivelata una rapidissima performance di 20 minuti con invasione di palco, intervento della sicurezza, oggetti regalati e lanciati al pubblico e qualche spezzone delle sue hit. Vero eroe d’altri tempi.
Il Primavera Sound è diventato un festival ancora più grande e ambizioso e i rischi di coachellizzazione nonostante le percentuali di pubblico più anglosassoni al momento sono scongiurati. Basta vedere le line-up delle prossime tappe internazionali a Los Angeles, São Paulo, Santiago de Chile e Buenos Aires per capire che sarà molto difficile riuscire a fare cambiare rotta a un festival che per gli appassionati e le appassionate di musica privi di preconcetti e barriere di genere non ha uguali nel mondo. La nuova normalità, in tutti i sensi.
Tutte le foto sono tratte dalla raccolta di foto per la stampa del Primavera Sound. I credits sono nel testo alternativo