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Con Cruel Country, il loro dodicesimo album in studio, Jeff Tweedy e compagni tornano a fare i conti con uno dei generi che li ha formati e con tutte le sue innumerevoli incarnazioni: il country è un universo al quale i Wilco hanno sempre guardato e col quale non smetteranno mai di flirtare. Ma il doppio senso del titolo fa trasparire anche un nuovo, l’ennesimo, messaggio alla loro nazione.
La voce nasale, impastata e sempre passionale di Jeff Tweedy sembra quasi incagliarsi sulle pennate di chitarra acustica che la trasportano: “Do you remember when we would forget?”, canta Tweedy in “Hints”, “When we were, I guess, an empty continent?”. I ventun brani del doppio Cruel Country, prodotto, come il precedente Ode to Joy, da Tom Schick e da Tweedy stesso, prova a fornire una lettura interpretativa del rapporto che la band di Chicago, a vent’anni esatti dal capolavoro Yankee Hotel Foxtrot, sin dai suoi primi passi ha stretto con il country, fonte d’ispirazione centrale per il gruppo sia per quanto riguarda il modo di comporre che per quanto concerne la creazione del loro sound folk-rock Americana. Ma, come il titolo suggerisce, questo LP è anche un disco che, come faceva Foxtrot, dialoga con i fantasmi cui la propria nazione ha dato vita, una riflessione complessa e turbolenta che non prevede risposte definitive. “I love my country stupid and cruel”, canta Tweedy in “Cruel Country”, per poi ricordarci in “Story to Tell” che “The world is always on the brink”.
È una definizione, quella di country, che Tweedy non ha mai accettato per i Wilco, e Tweedy stesso ha ricordato ciò in uno statement diffuso poco dopo l’annuncio dell’uscita del disco. Un genere, il country, che è in realtà sempre stato fonte d’ispirazione per il gruppo, che però ha sempre giudicato limitante e in parte erronea l’etichetta country che alcuni – per la verità non molti – gli hanno affibbiato. Registrate prevalentemente live in studio, le canzoni di Cruel Country sono variegate e ispirate, con arrangiamenti preziosi e diversificati; alcune di esse sono nate durante le registrazioni di Love Is the King, l’album solista di Tweedy uscito nel 2020, tenutesi durante il primo lockdown pandemico.
Nel corso di Cruel Country Tweedy ci canta di un amore finito, dei sentimenti contrastanti che prova per la sua nazione e dei dubbi esistenziali che lo tormentano. Tra ossimori ed efficaci iperboli, le liriche sono decisamente funzionali alla musica che le accompagna, fluide, spesso argute e, prima di tutto, oneste, come i Wilco ci hanno abituato da sempre. “The best I can do / Is try to be happy for you / In a sad kind of way” è una perfetta sintesi di ciò che è Cruel Country, un muoversi tristi in cerca di un un raggio di sole che possa darci speranza o l’illusione di essa, senza dimenticare che il percorso infernale non garantisce un paradiso alla fine: “I’ve been through hell on my way to hell”, canta Tweedy senza giri di parole.
Musicalmente parlando, Cruel Country è, insieme ai primi due lavori del gruppo, l’album dei Wilco dove l’influenza del country è più esplicita. Tuttavia, la mescolanza di sonorità country e del classico folk-rock declinato à la Americana rende quasi indistinguibili tra loro gli elementi di un genere o dell’altro, come sempre accade nelle opere dei più grandi. Laddove le composizioni non sono particolarmente notevoli interviene il mestiere: i Wilco, musicisti straordinari, creano i presupposti per dar valore a ogni singola composizione, anche a quelle che dal punto di vista melodico e lirico potrebbero risultare filler nei 78 minuti di musica eleganti e compatti che è Cruel Country. In generale, però, i brani sono di valore. L’esplosione pop di “Tired of Taking It Out on You” è raffinata e dolce e Tweedy sembra spogliarsi di ogni timore mentre la canta. Il massimalismo di “Bird Without a Tail / Base of My Skull” dà vita a un brano complicato e ambizioso che richiede all’ascoltare attenzione e pazienza. La ballata “rurale” ritmata e un poco rockabilly di “Falling Apart vede la band divertirsi e scivolare tra le chitarre distorte da ‘50s (e uno dei pochi assoli del disco) e la voce suadente e graffiante di Tweedy. Un affresco country romantico e pregevole è “Please Be Wrong”, che pare provenire da un decennio lontano e dove la voce di Tweedy diventa quasi quella di un crooner.
È, come al solito, la sagace e attenta commistione di folk e di country che, in definitiva, rende i Wilco quello che sono, in Cruel Country come altrove, ricordando a tutti, a loro stessi in primis, che nessuna etichetta potrà mai incasellarli. È un disco autentico, che guarda in faccia chi ascolta, e che vive e si muove entro un bipolarismo evidente che oscilla tra una tristezza insistente e una velata e mesta allegria, dove ognuna si nutre dell’altra e in essa si tramuta. Questo pendolo è descritto perfettamente da Tweedy sul finire del disco, quando canta che “There isn’t any point in being free / When there’s nowhere else / You’d rather be”.
72/100
(Samuele Conficoni)