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I Just Mustard debuttavano quattro anni fa con Wednesday, un disco autoprodotto e pubblicato per una piccola etichetta di Dundalk, cittadina irlandese che guarda l’Inghilterra da un lembo di terra stipato quasi a metà strada fra Belfast e Dublino. Li abbiamo ritrovati da poco, a primavera inoltrata, con il nuovo Heart Under, evoluzione (più o meno) naturale di una proposta che appariva già solida e personale.
Il secondo lavoro in studio del quintetto, infatti, aggiunge colori nuovi – o forse sarebbe più opportuno parlare di sfumature in scala di grigi – a un sound che riparte dalle stesse coordinate stilistiche del passato, shoegaze e noise rock, ma che stavolta incorpora ricami post rock, claustrofobiche atmosfere industrial e, addirittura, tracce di trip hop.
La sensazione che i Just Mustard abbiano voluto impegnarsi in un lavoro di ricerca ulteriore, con l’obiettivo di alzare ancora l’asticella rispetto al debutto, è confermata già dall’opener (“23”) che, nelle sue stratificazioni sospese fra post rock e trip hop, soffoca l’ascoltatore con le linee di basso di Rob Clarke e lo ipnotizza con il drumming ossessivo di Shane Maguire. È su questi elementi, oltre che sugli intrecci chitarristici disegnati da David Noonan e Mete Kalyon, che svetta il candore autentico della voce di Katie Ball, quasi a voler aprire squarci di luce in un mondo tenebroso, non a caso figlio anche di una certa tradizione darkwave/goth.
La tensione creata sin dai primissimi secondi è ciò di cui Heart Under si nutre e, anche nei momenti di apparente scioglimento, questo genere di umore viene improvvisamente suggerito o ricreato con un ventaglio di soluzioni sufficientemente ampio per togliere punti di riferimento e prevedibilità al discorso. I riverberi circolari di “I Am You”, per esempio, alimentano lentamente il crescendo shoegaze su cui si inerpica il cantato di Katie Ball, prima di una discesa gravitazionale improvvisa, mentre “Sore” trasforma improvvisamente il dream pop in un tappeto di stratificazioni avvolgenti da cinematografia dell’orrore.
Ma se in alcuni momenti i cinque di Dundalk appaiono anche accondiscendenti nei confronti di qualche vaga pulsione sperimentale, altri episodi sono il sintomo più palpabile della velocità con cui la band sta affrontando il percorso di crescita: “Still”, idealmente, appare vicino a Wednesday, ma padroneggia con più convinzione il nucleo di influenze e riferimenti culturali, raggiungendo un risultato più importante; “Blue Chalk” li sintetizza, finendo per levitare, con un effetto decisamente alienante; “Mirrors” illude con un sound rassicurante e immediato, prima di trascinare in un vorticoso ambiente collocato nella terra di mezzo fra il post rock e lo shoegaze più onirico, un’idea apparentemente condivisa con “Seed”, che si prepara a una violenta deflagrazione di percussioni, distorsioni e riverberi dopo aver raccontato che i Just Mustard non disdegnano velleità melodiche. Gli ultimi tasselli del mosaico sono rappresentati dai vibranti saliscendi di “Early” e dalla geometria post punk imperfetta di “In Shade”, che anticipa le traiettorie rarefatte di “Rivers”, su cui si spegne in maniera definitiva il secondo disco degli irlandesi.
I Just Mustard sono riusciti in tempi brevissimi a definire in maniera limpida la propria proposta artistica, con il coraggio di chi è impegnato in una incessante ricerca di intuizioni nuove per non rimanere mai troppo simile a se stesso e con la bravura di chi riesce a integrarle perfettamente in un sound che rimane organico nonostante i confini siano piuttosto frastagliati. Heart Under trascina di peso in un universo a tinte fosche interamente costruito da una band decisamente ispirata e ne riflette un talento compositivo cristallino: qualcosa di grande si è già materializzato, ma potrebbe non essere tutto qui.
80/100
(Piergiuseppe Lippolis)