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A tre anni di distanza da Emily Alone, che Emily Sprague, pur pubblicandolo a nome Florist, scrisse e registrò in completa solitudine in seguito alla morte della madre, l’eponimo Florist cerca di fare i conti nuovamente col dolore che di volta in volta si incarna in forme differenti nelle nostre vite. È uno splendido affresco lo-fi di musica folk di diciannove pezzi attraversata da numerosi strumentali, ben dieci, che si alternano a brani cantati, che senza l’equilibrio che creano con i momenti musicali privi di voce non avrebbero forse la stessa potenza.
La musica di Sprague e dei suoi colleghi è sempre stata un processo catartico per riflettere su ciò che ci accade cercando di rendere unico ogni singolo istante, di isolare ogni piccola vibrazione e di darle un contesto. Non è un caso, insomma, che nel suo progetto solista Sprague proponga musica elettronica ambient e minimalista: in qualche modo in essa viene dipinta la stessa visione del mondo di cui canta nei Florist ma da un punto di vista diverso. Il suono del gruppo, così “ambientale” sia negli strumentali sia nei brani cantati, è un continuo cercare una risposta ai traumi che ci affliggono. È stato così sin dagli inizi, quando Sprague, dopo aver rischiato la vita in un grave incidente in bicicletta circa nove anni fa, scrisse il disco esordio The Birds Outside Sang, un primo tentativo dell’autrice di dialogare con qualcosa o qualcuno – il destino, la famiglia, i suoi compagni di viaggio, sé stessa – in merito a ciò che non riusciamo a spiegarci.
Il processo di crescita è continuato con If Blue Could Be Happiness, pubblicato nel 2017, ed è giunto a una tappa cruciale con Emily Alone. Questa strada è una sorta di eco a posteriori dell’affermazione che la cantautrice mette al centro della mozzafiato “Ocean Arms” pubblicata proprio su Emily Alone: “You were not your final form”, canta sottovoce rivolgendosi alla compianta madre, con un tono più speranzoso che realmente convinto del fatto che tutto, anche le tragedie più inspiegabili, debba in qualche modo realizzarsi inevitabilmente in vista di qualcos’altro. Che questo qualcosa d’altro sia qualcosa di buono, però, non è affatto detto. La musica dei Florist, apparentemente così naturalistica, spontanea e melodicamente lucente, è popolata da fantasmi e da demoni, è una pace apparente che sta per essere squarciata da un momento all’altro, in particolare dalle sottilissime e quasi impercettibili variazioni nella voce di Sprague, nelle sue interpretazioni, negli arpeggi sempre così precisi della sua dolce chitarra. È un cielo sereno nel quale stanno sopraggiungendo nuvole nerissime che potrebbero dar vita a un temporale oppure rimanere in silenzio sulle nostre teste, lasciandoci asciutti ma con un senso di inquietudine enorme. Non sappiamo se inizierà a piovere: anche questo album, come, in fondo, anche Emily Alone era, è un’allegoria infinita di un fiato sospeso.
Inciso in una casa presso l’Hudson Valley, Florist è un LP la cui musica pare divenire tangibile nel momento stesso in cui si forma: in parte evidentemente improvvisato, nei suoi capitoli strumentali, grazie all’eccellente chimica che unisce i membri del gruppo, in parte spontaneamente costruito intorno ai temi lirici e musicali che Sprague affronta da sempre nei suoi brani, in un contesto familiare e quasi terapeutico che si palesa in improvvise e inattese epifanie, tanto rapide e piccole quanto significative, come quando Emily dice al suo gruppo “That’s it” sul finire di un pezzo, a indicare che la direzione che il brano ha preso è stata decisa quasi sul momento, Sprague canta a noi, alla band e soprattutto a sé stessa, in una seduta di gruppo che è prevalentemente un viaggio nella sua interiorità.
Momenti amichevoli, di gioia e di serenità contrastano con sfumature più cupe che conducono il discorso in tracciati perigliosi e di non facile decifrazione. Anziché entrare in studio con brani già scritti da Sprague e un’idea ben precisa per quanto concerne arrangiamenti e suoni, questa volta il gruppo ha deciso di dar vita a qualcosa di più collaborativo e immersivo: affittata una casa nella Hudson Valley, il quartetto ha iniziato a suonare ogni giorno per giungere in modo istintivo, quasi fisico, ai risultati che desiderava raggiungere. Non che questo non sia stato faticoso, ovviamente; ciò che traspare dal disco, però, è la naturalezza, che non è sinonimo di facilità, attraverso la quale quest’opera è nata, punto focale senza aver compreso il quale non si riuscirebbe a perlustrare i cinquantotto minuti del disco con cognizione di causa.
Le connessioni sia tra parti del disco sia tra questo album eponimo e alcuni dei suoi predecessori rappresentano un elemento integrante dell’universo creativo dei Florist. Ciò è reso evidente da riprese a brani presenti in altri dischi, come è “Red Bird Pt. 2 (Morning)”, e da collegamenti tra episodi del disco, come le tre parti, brevissime e strumentali, di “Bells”. Ma è soprattutto nel sound e nelle tematiche che questo disco intesse un dialogo con gli altri dischi del gruppo e mostra la volontà di proseguire il percorso intrapreso arricchendo il proprio repertorio di elementi nuovi o di variazioni sul tema, come, per esempio, i tanti strumentali che non sono mai riempitivi ma vere e proprie ianuae, momenti di passaggio che accolgono lo stesso calore e la stessa irrequietezza che è presente nei brani cantati, arricchiti da testi che racchiudono quel sentimento dolceamaro cui Sprague ci ha ormai abituati. “I can hear you singing still / Wake up in the morning, so the morning comes / Where has it gone now, where has it gone”, canta Sprague in “Red Bird Pt. 2” con una voce velata di una malinconia oscura, tradita, talvolta, da un raggio di luce che emerge in alcuni passaggi del testo, che indaga il suo rapporto col padre e i ricordi di lui riguardo alla nascita di Emily, e nelle venature vivide della melodia. Sono quadretti sinceri e potenti, interpretati dal gruppo in maniera perfetta.
La costante nuvola carica di dolore non se ne va mai del tutto. Nella brillante “43” è splendidamente rappresentata da una melodia celestiale che si incunea in ricordi affollati, a tratti vividi e a tratti confusi, che creano un panorama perfetto di nostalgia e di gioia: “And I wished for aliens to come in and study my body”, canta Sprague squarciando la narrazione con questo flashback improvviso, per poi aggiungere, rinvigorita, “we’re growing without all thе painful things”. Sono piccoli elementi, scene apparentemente scarne, frammentate e fumose che rappresentano, però, la strada migliore per entrare nella psiche della loro autrice. Sempre in “43”, vero picco del disco, è nella coda strumentale, pervasa da una minaccia incombente che sembra seguirci nel buio, che emerge ancora una volta questo παράδειγμα della produzione di Sprague. Le nubi talvolta si diradano, lasciando spazio a una luce lontana che filtra appena dalla finestra di una stanza strettissima “You’re not what I have but what I love”, canta Sprague nella sofferta e abbacinante “Sci-Fi Silence”: queste parole accompagnano il brano verso la sua conclusione e sembrano provenire dalle pieghe di un tempo ormai perduto e lontano.
In Emily Alone Sprague faceva i conti con la morte della madre, una ferita incolmabile che la sua autrice non poteva che affidare alla musica e alle sue proprietà curative. Anche in Florist vi è la medesima urgenza di costruire qualcosa in mezzo alle rovine che il dolore e la perdita portano, rovine che non possono essere spazzate via, che vanno sempre affrontate. Il dramma e la sua esorcizzazione, infatti, sono temi centrali nella produzione di Sprague. Distribuita in questa cornice onirica, dove le canzoni sembrano farsi materia nel momento stesso in cui i musicisti prendono in mano il loro strumento, la ricerca sonora e filosofica di Sprague e dei suoi soci assume una veste ulteriormente diversa: l’ascoltatore viene preso per mano e condotto in una galleria di sfumature e di indizi che lo portano al centro del processo creativo che il gruppo ha attraversato nel creare quest’opera.
80/100
(Samuele Conficoni)