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È importante sentirsi parte di una comunità: per la prima volta con questo “Something More Than Love” Lera Lynn ha sentito il supporto di Nashville, la città che l’ha accolta nel 2012 dopo il trasferimento da Athens. Lo scrive lei stesso in un post su Instagram del 22 agosto sotto un cartellone gigante con la copertina dell’album, commentando che l’incitamento le viene dalle radio locali fino ad arrivare ai negozi di dischi. In realtà “Something More Than Love” merita di andare ben al di là della “comunità locale di Nashville”.
La cantautrice americana infatti è riuscita, in questo suo sesto album, ad essere leggera e profonda al tempo stesso, sfruttando una serie di canzoni arrangiate in maniera encomiabile e che lasciano trasparire di più di quello che danno nell’immediatezza, caratteristica di un buon songwriting. Con una padronanza da cantautrice navigata “alla Suzanne Vega” (“Conflict Of Interest”, che tradisce anche sviluppi di elettronica-minimale come facevano i Metric e un ritornello arioso di “matrice R.E.M.”), la Lynn sembra una buona artigiana di un pop che si faceva una volta (l’indiepop di “I’m Your Kamikaze”) ma con una elegia contemporanea (il synth pastoso e sospeso dell’intro di “Illusion” che potrebbe rimandare agli ultimi Beach House, con un cantato sonnacchioso di chiara discendenza Lana del Rey).
Certamente l’essere diventata madre è stato un passaggio che le ha consegnato la maggiore necessità di concentrare gli sforzi, ritagliarsi tempi, sentire sensazioni nuove dentro di sé (“What Is This Body?”), ma sarebbe riduttivo individuare solo quello come punto di svolta della carriera della Lynn, perché alla base c’è indubbiamente la consapevolezza di creare qualcosa di elevato e un gran lavoro di squadra con il compagno Todd Lombardo (Kacey Musgraves/Donovan Woods/Kathleen Edwards). E in definitiva l’etichetta di “noir pop” di cui narrano i comunicati stampa è finanche riduttivo, perché non ci sono solo ballate scure quanto piuttosto un’alternanza di aperture e chiusure ma sempre con grande finezza. Prendiamo ad esempio un pezzo come “You Are not Your Own”: parte come una classica canzone acustica chitarra e voce ma ben presto si scioglie in echi lontani con passaggi evocativi che portano l’ascoltatore oltre quei semplici colpi di charleston che fanno da (inesistente) base ritmica, dimostrazione di come far camminare un pezzo senza dover strafare in tempi e controtempi.
L’unico difetto di “Something More Than Love” è forse quello di non inserirsi in un trend attuale ben definito e riconoscibile tale per cui si possa farlo identificare al grande pubblico, ma per il sottoscritto questo deriva dalla sua forza di essere un album vario, quasi lunatico, cesellato su diverse emozioni e contesti differenti. Un pregio che quindi solo mediaticamente potrebbe non essere percepito come tale. Ma è solo un’impressione, perché la voce di Lera è profonda e modulata al punto giusto (non troppo, e a me non piacciono le cantanti che fanno prendere alla voce degli ascensori convulsi) e quindi non le manca nulla per il grande salto, forse solo un po’ di riconoscibilità.
Poco male, per quanto ci riguarda “Something More Than Love” resterà ancora per un bel po’ nei nostri ascolti e questa recensione vorrebbe avere instillato nei lettori la voglia di ascoltarselo: fidatevi, saranno 38 minuti trascorsi in maniera molto piacevole.
77/100
(Paolo Bardelli)