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Nel trattato intitolato De partibus animalium, il filosofo stagirita Aristotele afferma, in termini non dissimili da quelli che utilizza in molte altre sue opere, che ogni essere vivente è costituito da due parti intrinseche, la materia primaria (οὐσία) e la forma sostanziale (εἶδος). Da queste basi muove il suo studio sugli elementi primordiali della natura e sulle condizioni che portano i corpi a essere come sono. In God Save the Animals Alex Giannascoli non osa spingersi tanto in profondità, ma il fatto che in più momenti della sua discografia, fino a quest’ultimo, brillante episodio, cerchi di relazionarsi con il mondo animale per celebrarlo e per interrogarsi, di risposta, su che cosa siamo noi è sintomatico. È un taglio enigmatico e sincero la fessura attraverso la quale Alex G decide di raccontare lo speciale rapporto che lega uomini e animali, lui che il suo cane aveva già citato in qualche pezzo e che sembra comprendere come un destino di dolore accomuni noi e loro nonostante i gradi differenti di coscienza. Questo non è un album pessimista, tuttavia, e le voci che pervadono “After All”, apertura del progetto, lo confermano. “Were you young when you lost innocence? / Did the world feel so unkind?”, si domanda con schiettezza, privo ormai di ogni timore e di ogni tipo di rancore: il dolore lascia spazio alla natura e alle sue manifestazioni, brutte o belle che siano, sempre, pure, inevitabili. D’ora in poi Alex G non torna indietro: si può andare solo avanti, sembra dirci.
È guardandosi indietro, però, che questo disco prende vita. È dalle vene anarchiche di “Gretel”, il singolo portante di House of Sugar, il suo precedente ed esaltante album in studio, con il suo ritmo graffiante, i pitch distorti e il folk elettr(on)ico (ed eclettico) che il disco intero inventa che God Save the Animals pian piano si materializza. È una maturazione eccelsa, una direzione coraggiosa ma non di certo inattesa, di quelle che ti portano a domandarti come mai l’autore sia arrivato a tali scelte, radicali e labirintiche, secche eppure mastodontiche: sarà che il sottobosco da songwriter è poi ovunque, un sound che talvolta nasconde echi dei Wilco e dello Stephen Malkmus più ciondolante, fonti evidenti nella melodia di “Mission” che è da stropicciarsi gli occhi, o nella bipolarità marziale di “No Bitterness”, dove la voce da baritono di Giannascoli si tramuta ben presto in un ipnotico e incalzante trip lisergico tra distorsioni ed elettronica, tra tecnologia e analogico. Anche episodi spudoratamente innovativi come “Ain’t It Easy” e “S.D.O.S.” funzionano egregiamente: la decostruzione della convenzionale canzone d’autore è perseguita attraverso minuziose operazioni e dettagliati accorgimenti. Il ritmo si frammenta, le voci si scompongono e si allacciano come emergendo da un oceano e la produzione è particolarmente ardita. Visto il titolo del disco e la sua dimensione panica i versi “God is my designer / Jesus is my lawyer” strappano molto più di un sorriso. Non si tratta di cinismo ma di sana accettazione del reale in tutte le sue ingiustizie e imperfezioni: Giannascoli affronta tutto ciò di petto, senza mai cedere alla disperazione e allo sconforto, finché nella attorcigliata “Immunity” canta “Baby I’m in trouble”, dichiarazione di poetica, diremmo; ma poco dopo aggiusta il tiro e chiude il brano con un leggero “Yeah, I’m in love with you” che è perentorio ma non troppo e lascia ancora tutto aperto.
In God Save the Animals emerge, dicevamo, una certa volontà da parte di Giannascoli di scrollarsi di dosso quel fardello pessimistico che avvolge la maggior parte o quasi delle sue composizioni. Sia ciò necessità di esorcizzare od ossessione non importa: questo è un dubbio mai risolto, un’ambiguità che aleggia nelle pieghe sofferenti di tutti i brani migliori di Giannascoli, una domanda che resta perennemente inevasa perché questo è ciò che vuole lui. Affidarsi agli animali e pregare un buon dio laico che si invoca come protettore di un sentimento totalizzante non è nulla di incredibile: gli indizi che conducono a questo sono disseminati ovunque. Ci riconosciamo e sprofondiamo nella vetrosa “Cross the Sea”, carmen sacrale che procede dritto e celere nell’avvolgente frase che è “You take care of me / You take care of me”, che finisce per convincerti che Giannascoli è al tuo fianco. Ricordi scorrono lì accanto: lui prova a trattenerli ma è difficile fermarli. Così nella epifanica “Early Morning Rain”, come in una commedia terenziana nei concitati attimi precedenti all’agnizione, Giannascoli vede se stesso finalmente illuminato e prova a risultare convincente rivolgendosi alla sua immagine: “Haven’t I given enough? / When will I run out of love?”. Nel gioco di specchi nessuno si è fatto male e il narratore è ancora in piedi.
Miracolose apparizioni sono quindi ormai normali in un contesto frammentario e laicamente (e in parte anche ironicamente) religioso come questo. Tutto ciò è vissuto intensamente e seriamente da Giannascoli: il suo trasporto emotivo pervade ogni immagine e ogni nota di quest’ultimo lavoro. Sia d’esempio la prodigiosa “Miracles”: “You say one day we should have a baby, well / God help me, I love you, I agree, yeah”, canta Giannascoli pieno di gratitudine. Nella via crucis della mente ha superato i demoni che di certo non scompaiono ma che ora non strillano ogni giorno: Giannascoli arriva a immaginare una famiglia, un buon futuro, una meta a cui tendere. La metamorfosi è compiuta: l’oscuro è ancora lì a osservarci ma ora tace, anche se presto ricomincerà a gridare. “You and me, we got better pills than ecstasy”, canta Giannascoli, e non abbiamo alcun motivo per non credergli. E gli animali, poi? “Baby, I pray for the children and the sinners and the animals too, and I pray for you”. Gli animali, dunque: non esiste alcun kosmos e non esiste amore nella mente di Giannascoli che non comprenda anche gli animali, domanda e risposta insieme del mistero che è la vita. Si affida a loro nello scomporre e frammentare i ritmi e i suoni e la sua voce, e tutto questo a tratti sembra costruire quell’impalcatura sotterranea di minute relazioni che governano l’esistere di cui Aristotele ha scritto, “all’opposto dell’assoluto” [*]. Ma questa, forse, è tutta un’altra storia.
[*] Pierluigi Fagan, “Ricerca delle origini della cultura della complessità: Aristotele”, in https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/02/22/ricerca-delle-origini-della-cultura-della-complessita-aristotele/
79/100
(Samuele Conficoni