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Definire il suono degli album di Beth Orton non è semplice e neanche scontato. Nella sua carriera non si è mai legata (per troppo) ad una precisa scena. Beth è passata dall’elettronica “big beat” degli esordi (vedi Chemical Brothers e William Orbit), al folk rock inglese “barocco” (“Trailer Park” e i seguenti “Central Reservation” e “Daybreaker”), alla più recente vena psichedelica con Andrew Hung dei Fuck Buttons nel suo ultimo “Kidsticks”.
Ma tutte queste variazioni hanno un elemento comune : la sua voce, strumento versatile in grado di trasmettere calore e profondità emotive.
Anche questo settimo album, “Weather Alive”, il primo per Partisan Records, arrivato dopo sei anni da “Kidsticks”, lo conferma, anzi qui più che in altri la voce è la “guida”. La cura che ha messo nei particolari è notevole, probabilmente essendo la produttrice la cantante ha avuto la ‘mano libera’ più che in altre occasioni e ne ha approfittato ampiamente, per fortuna aggiungerei.
Ovviamente per arrivare all’ampio spettro sonoro che ha voluto inserire e che le ha permesso di prendere diverse direzioni senza mai perdere il focus dei brani ha dovuto ricorrere a diversi musicisti.
Quelli che l’hanno aiutata maggiormente sono stati Alabaster dePlume (batterista di The Smile/Sons of Kemet), Tom Skinner e Tom Herbert di The Invisible, la cui presenza ha dato una chiara impronta alle sonorità “deviate”, insolite e nuove.
La stessa cantante ha confermato che i brani li aveva composti in modo molto minimale al pianoforte e man mano, in studio, erano stati arricchiti dai vari musicisti, senza tener conto di direzioni precise, in piena libertà, con un approccio vicino al jazz.
La title track, con cui parte l’album, descrive una sorta di esperienza spirituale nell’accettare qualcosa che sfugge al suo controllo: “Sfuggendomi dalle mani/Cade dalla mia presa/Altro di quanto io possa sopportare/prendere vita” è un esempio di come la voce, a volte slanciata, a volte solo un sussurro sembri figlia di un’improvvisazione. Invece è più limpida la direzione di “Friday night” con un incidere vocale che ricorda molto Neil Young in un omaggio molto ‘sottotraccia’ ma evidente, porta in altri luoghi ben lontani dal cantautore canadese. Ancora differente è “Fractals” che ha un groove accattivante, il che rende il brano molto ‘classico’ e vicino alle sue composizioni più folk dei primi anni: “smetti di credere nella magia”, dice la cantante, come per esortare a crescere e vedere il mondo come è veramente, il tutto tra una batteria soft e il dolce sax di dePlume.
Virata al blues è in “Haunted Satellite”, non ci si aspetti Leadbelly, è un brano molto sofferto, amaro, ricoperto di, appunto, “blues” e per niente classico.
La sobria “Forever Young” (no, non è la cover del celebre brano di Bob Dylan, altro omaggio?) dove Beth canta “Torna, amore mio, e guarda / Vieni a vedere che pasticcio / Hanno fatto di tutto questo” è un inno disperato in tonalità minore guidato da un ‘riff’ di piano in loop.
“Arms Around a Memory” ha un’evoluzione inquietante e graduale, da brividi, forse uno dei brani più profondi mai scritti dalla cantante inglese che poi chiude l’album con la desolata “Unwritten”, brano guidato da piano e voce, il meno stratificata degli otto.
Con questo lavoro, come ricordato sopra, il settimo in trent’anni di carriera, conferma come Beth Orton abbia ancora quell’istinto che la porta a ricercare una nuova scintilla, una nuova sfida che le permetta di sorprendere e sorprendersi e scrivere, cantare e ora produrre musica ad un livello sempre altissimo, lasciando a noi la conferma che la voce più preziosa che vale la pena ascoltare sia la sua.
80/100
(Raffaele Concollato)