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“New Gold Dream (81–82–83–84)” (qui di seguito nell’articolo anche solo “NGD”) è uscito il 17 settembre 1982, e perciò domani saranno 40 anni: questa è la storia (e valutazione) di un album fondante la new wave e in generale la musica degli anni Ottanta.
L’ottimismo è il sale della vita
Sul finire del 1980 i Simple Minds non se la passavano benissimo: i primi loro tre album (“Life In A Day” – aprile 1979, “Real To Real Cacophony” – novembre 1979 e “Empire And Dance” – 1980), seppure avessero ricevuto buone critiche, fossero stati realizzati da un Signor Produttore (John Leckie) e avessero sfoggiato un pedigree di tutto rispetto fatto di new wave e krautrock (al tempo si parlava anche di post punk, ma oramai con tutto il non-significato che ha assunto oggigiorno ci si trova in imbarazzo ad usare quel termine), non avevano venduto bene. La Arista Records non era contenta, avendo accumulato con la band scozzese un debito di 140.000 sterline, e perciò il divorzio fu naturale. Ma Jim Kerr e Charlie Burchill non erano fatti per arrendersi, e non erano partiti dalla “provinciale” Scozia per finirla lì, per cui si spostarono alla Virgin, un’etichetta che consideravano più dinamica. E che si dimostrò molto intraprendente, se è vero che il primo progetto con la Virgin è un album doppio (“Sons and Fascination/Sister Feelings Call“), o meglio due album usciti lo stesso giorno (4 settembre 1981) inizialmente in maniera separata e poi successivamente riuniti e venduti come album doppio. Scommessa vinta, quantomeno parzialmente. Con “Sons and Fascination/Sister Feelings Call” i Simple Minds tastano infatti il terreno alla loro capacità di scrivere delle hit, come i tre singoli “The American”, “Love Song” e “Sweat in Bullet” confermano: soprattutto quest’ultimo è importante per il futuro dei nostri, perché sarà la prima volta che i Simple Minds lavoreranno con Peter Walsh, il produttore di “NGD”, per remixare appunto “Sweat in Bullet”. Il vento sta cambiando e i Simple Minds se ne accorgono, sono molto ricettivi e prolifici, e soprattutto ottimisti. La linea di testo più esemplificativa in tal senso è quel “Everything is possible” in “Promised You a Miracle“, prima canzone di “NGD” ad essere stata pubblicata, ad aprile 1982 e dunque molto prima dell’uscita dell’album. Si apriva un tempo in cui qualunque cosa poteva essere realizzata, un pensiero positivo che rappresentava bene il sentore che stava facendosi largo in quegli anni Ottanta solitamente ricondotti, alle volte anche con un po’ di semplificazione errata, a dire il vero, a un momento di entusiasmo e fiducia nel futuro. Ma su questo ci torneremo.
“Promised You a Miracle” è un singolo che è il vero manifesto di “NGD” fin dal retro, per cui viene scelta la canzone di “Sons and Fascination/Sister Feelings Call” che più aveva fatto intravedere i semi di “NGD”, ovvero la meravigliosa strumentale “Theme for Great Cities”, un pezzo che forse al tempo passò un po’ inosservato ma che con gli anni ha assunto un’importanza strategica nell’evoluzione del linguaggio migliore dei Simple Minds, fatto di panorami sintetici, tempi arrembanti, giri di basso incalzanti e in generale un sentore che sta tra l’inquietante e l’epico.
Il 1982 come fine del post punk?
Probabilmente gli anni Ottanta iniziano davvero nel 1982 e lì finisce il periodo del punk a cui seguì, e si contrappose, il vasto movimento post punk. A questo punto potremmo anche fare un giochino e individuare i due album più rappresentativi in questa prospettiva: personalmente direi “Pornography” dei Cure come epitaffio finale delle ombre cupe riverberate dai Joy Division e dalla band di Robert Smith, e appunto “NGD” dei Simple Minds come l’inizio di una era diversa. Del resto fino ad allora non si può negare che i primi anni del decennio fossero stati in tendenza grigia, con la disoccupazione alle stelle e una forte opposizione giovanile iniziale al Thatcherismo, mentre iniziava a farsi largo un nuovo sentore di “new pop” un po’ luccicoso e luccicante (è un caso che “Glittering prize” si intitoli così?). “Se penso a ‘Lexicon of Love’ degli ABC o a ‘New Gold Dream’ o a The Associates (la band scozzese che pubblicò nel 1982 ‘Sulk’, nda), si trattava di musica colorata, vestiti colorati, tutto colorato”, ha dichiarato Burchill a Louder. “E quando la gente ha iniziato a usare ‘new romantic’ come terminologia, tutto sembrava vibrante e sgargiante rispetto alla fine degli anni Settanta”. Questo tipo di ricostruzione è avallata anche da un recente articolo di Gijsbert Kamer per il quotidiano olandese de Volkskrant: il giornalista olandese ha dichiarato che “‘Promised You A Miracle’ è il brano chiave che segna la fine del pessimismo allora di moda nella musica pop”. Forse una dichiarazione un po’ eccessiva, ma rende l’idea. E che ci fosse in divenire un diverso approccio lo attestano proprio i Cure, che non riescono più a mantenersi nella loro linea dark e sul finire del 1982, a novembre, sbottano pubblicando l’allegra ed irriconoscibile, per i fans del gruppo fino ad allora, “Let’s Go to Bed”. Anche Robert Smith si era allineato alla nuova tendenza (nota di colore: nonostante ciò, a Smith i Simple Minds non piacquero mai e nel 1986 dichiarò che suonare con la band di Jim Kerr fu “terribile”, ma siamo già in un’epoca in cui le menti semplici si erano già trasformate in rock da stadio).
Quando i comprimari sono ingranaggi imprescindibili
Per creare un album storico serve che tutto vada al posto giusto come un complesso puzzle, e così fu per “NGD”. Innanzitutto la produzione: Pete Walsh era un ventenne come loro, ma sapeva cosa voleva. Nonostante la giovane età, aveva in curriculum già una bombetta: la realizzazione di un album di successo come “Penthouse And Pavement” degli Heaven 17, ma anche un lavoro da ingegnere del suono per Stevie Wonder. Walsh capisce qual è il suono giusto per quelle canzoni e si dirige verso il sound degli Heaven 17 (ovvio) ma anche Human League, Spandau Ballet, ABC, Talking Heads, Roxy Music, Bryan Ferry e Grace Jones.
Ma forse più di lui ancora più fondanti furono gli apporti del bassista Derek Forbes e del tastierista Mick MacNeil, e di ciò se ne accorsero gli ascoltatori soprattutto dopo, quando i due uscirono dalla band (Forbes nel 1985 e MacNeil nel 1990). Derek Forbes è per i Simple Minds l’equivalente di quello che è stato Gianni Maroccolo per i Litfiba: come per il Gianni Nazionale il suono del suo basso era inconfondibile, tendente al metallico, e le sue linee diventavano un’impalcatura che rendeva già autosufficienti i brani. “Derek suonava il basso quasi come una chitarra solista”, ha dichiarato Walsh. E così come Maroccolo, la sua uscita ha determinato un cambio radicale nella proposta musicale della band: senza Forbes i Simple Minds non sarebbero più riusciti a ricreare il suono di “NGD” neanche se avessero voluto (e in ogni caso non vollero). Le armonie dei synth di Mick MacNeil furono invece la vera parte melodica dei brani di “NGD”, probabilmente più importanti del lavoro comunque cesellato di Burchill con la chitarra: in definitiva sono suoi i riff di “Promised You a Miracle”, “Big Sleep” e soprattutto quello intramontabile di “New Gold Dream” (la canzone), e senza quegli incipit di tastiera quei brani (fondamentali nell’economia del disco) sarebbero altra cosa e diventerebbero roba più trascurabile. Ma non sminuirei nemmno la precisione chirurgica dei suoi pad, ovvero i tappeti di violini sintetici che dipingono i cieli di “Somebody Up There Likes You”, “Someone Somewhere (in Summertime”) e “Glittering Prize”, come a dimostrare che MacNeil era forte tanto nelle parti soliste quanto negli accompagnamenti di contorno o, meglio, che rimanevano sullo sfondo.
Discorso a parte va fatto invece per il ruolo del batterista che vide avvicendamenti convulsi: Kenny Hyslop – che aveva iniziato a suonare coi Minds nel 1981 e “aveva scongelato alcuni dei loro ritmi glaciali e portato una leggerezza e un’iridescenza al suono”, come ha affermato Richard Foster di The Quietus, abbandonò la band dopo aver registrato “Promised You A Miracle” e fu sostituito da Mike Ogletree. Nonostante Ogletree suoni in “Colours Fly and Catherine Wheel” e “Somebody Up There Likes You”, si dimostrò non all’altezza della situazione: quei due pezzi sono meno movimentati e più lenti della media del disco, e quando i ritmi avrebbero dovuto essere più tirati il risultato non era quello voluto. Questo costrinse Walsh a prendere una decisione improvvisa, ovvero chiamare Mel Gaynor, un session-man suo amico che aveva suonato con gruppi brit-funk come Beggar And Co., Central Line e Light Of The World. Com’è finita lo sappiamo, con Mel Gaynor che è diventato il batterista più iconico dei nostri, vero motore in tutti gli altri brani di “NGD”. Mike Ogletree ha comunque finito le registrazioni dell’album come percussionista ma anche inventandosi “una strana parte di batteria” nel brano “New Gold Dream”, che di fatto è suonata con due batterie, la sua e quella di Gaynor.
Da questa ricostruzione emerge dunque che, per quanto i Simple Minds siano sempre stati una creatura soprattutto a due teste, quelle di Kerr e Burchill, è stato in particolare grazie agli altri che è potuto venire fuori un album come “NGD”. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare.
La spazialità di una musica dal cuore “strumentale”
La grandezza delle cose va cercata nei particolari o attraverso prospettive meno consuete, e per “NGD” si potrebbero sottolineare le inesorabili melodie “catchy” e le performance memorabili canore di Jim Kerr, ma preferirei proprio ribaltare il punto di vista: la vera natura di “NGD” è la sua parte strumentale. Le versioni senza voce, rinvenibili per gran parte dei brani nella “Deluxe Box Set” (qui una playlist), sono delle splendide traversate nel deserto alla ricerca di acqua rigenerante, dei viaggi in cui la consapevolezza del sogno è una componente estetica intrinseca, una volontà del sogno. Lo spazio che ricreano i brani strumentali si espande al di là della loro natura sonora per allargarsi a essere ambiente totalizzante, e gli intrecci di tastiere e chitarre sono una strada inesorabile su cui incamminarsi, percorso per scavallare quella collina nebbiosa e arrivare al di là, nella Nuova Città dell’Oro. Non ci sono esibizioni solistiche di ego smisurati, ma solo una meticolosa cura nella costruzione di un suono complessivo, con l’unica eccezione dello splendido assolo di pianoforte elettrico (che da piccolo ho sempre creduto una chitarra) del leggendario jazzista Herbie Hancock su “Hunter And The Hunted”. Una cattedrale di suono che non è solo luccicante, ma riverbera molte tonalità anche scure che però non deprimono bensì invitano ad attraversarle per arrivare “dall’altra parte”. “Per me ‘NGD’ riassume le strade che abbiamo percorso nei primi quattro dischi. Alcuni con atmosfere davvero cupe, alcune intense, altre claustrofobiche”, ha affermato Kerr. Ma la vetta dell’album è cristallina, ed è la titletrack, un brano quasi danzereccio se è vero che verrà campionato ampiamente per costituire la colonna dorsale di un’altra canzone che ha fatto ballare tutto il mondo per quasi tutti gli anni Novanta, ovvero “Open Your Mind” degli U.S.U.R.A., uscita nel 1992.
In tutto questo humus, è anche la programmaticità casuale di un titolo che mette insieme quel “Nuovo Sogno Dorato” alle annualità “81/82/83/84” a conferire all’album una valenza che va oltre alla musica in se stessa: con quei quattro numeri i Simple Minds partono dal passato e arrivano al futuro, ma soprattutto dicono che il presente sono loro, che sono loro a dettare la via di quegli anni. Una lucidità che non riuscirà più loro, persi alla ricerca della “fotocopia” di “NGD” in “Sparkle In The Rain” (1984), del rock da arena con “Once Upon a Time” (1985) e del pop sontuoso ed elegante di “Street Fighting Years” (1989). Il resto non conta.
Quando le note di copertina contano
E siccome bisogna sempre imparare dai migliori, per chiudere questa retrospettiva credo sia giusto riportare le note di copertina della versione Deluxe, opera del giornalista scozzese della BBC Billy Sloan, perché davvero illuminanti: “NEW GOLD DREAM (81-82-83-84) è il suono di una band che realizza pienamente il suono pop sofisticato e accessibile a cui aspirava, pur continuando la sua ricerca di sperimentazione. Mentre gli album precedenti avevano esplorato il sottofondo oscuro di una cultura europea più monocromatica, NEW GOLD DREAM è una storia espansiva e cinematografica, con un suono generalmente più leggero e melodico, ricco di calore e colore”. Come dirlo meglio?
(Paolo Bardelli)