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Lo Spazio Bianco, il sito di fumetti con cui Kalporz collabora, ha intervistato gli autori di “Le parole possono tutto”, Silvia Vecchini e Sualzo, approfondendo i diversi significati e messaggi della loro graphic novel.
Sara non parla molto dopo l’incidente, la separazione dei suoi, il litigio con la sua migliore amica. Qualcosa dentro di lei si è bloccato. Ma il destino mette sulla sua strada un maestro inatteso: l’anziano signor T, con le sue storie antiche e la fissazione per l’alfabeto ebraico, che Sara comincia a imparare. È solo un vecchio pazzo? Forse. Ma grazie a quelle lettere misteriose, una strana creatura entra nella vita di Sara. E con lei, a poco a poco, tornano le parole, quelle giuste per vivere tutto: l’amicizia, la famiglia e, forse, anche l’amore. Silvia Vecchini e Sualzo, una delle coppie più importanti e consolidate del fumetto italiano e internazionale per ragazzi, sono tornati a lavorare insieme ne Le parole possono tutto, pubblicato dall’Editrice Il Castoro nel 2021.
Abbiamo parlato con i due autori della loro pluripremiata graphic novel e del percorso di formazione personale che ha portato a una sinergia tra loro così speciale.
Ciao, Antonio e ciao, Silvia: bentrovati su Lo Spazio Bianco!
Ci incontriamo in occasione dell’uscita – ormai avvenuta da quasi un anno – di Le parole possono tutto, una storia che ha riscosso un grande successo di critica e pubblico e ha ricevuto numerosi premi, tra cui – ultimo in ordine cronologico – il Micheluzzi al Napoli Comicon per la migliore sceneggiatura.
Questa non è la prima volta che vi approcciate al mondo dei bambini e degli adolescenti, avete lavorato molto anche nelle classi, portando nelle scuole in linguaggio del fumetto. Cosa vi induce a continuare non solo a parlare alle ragazze e ai ragazzi, ma a raccontare l’essere giovani?
Silvia Vecchini [SV]: Il nostro mestiere è scrivere, raccontare attraverso immagini e parole. Lo facciamo da sempre pensando ai bambini e ai ragazzi. Con il fumetto ci siamo dedicati proprio all’adolescenza, avvertendo in questo tempo, una grande opportunità. Più che raccontare l’essere giovani, ci piace raccontare il momento in cui si cresce. In Fiato sospeso è il desiderio di uscire allo scoperto e mettersi alla prova attraverso una gara e un’avventura. Ne La zona rossa, questo momento è “forzato” da un accadimento, il terremoto e il prendere coscienza che le cose cambiano e si trasformano. In 21 giorni alla fine del mondo è la ricerca della verità quando ci si accorge che le parole ricevute da bambini non sono più sufficienti e si ha il desiderio di andare verso il mondo con più consapevolezza. Ne Le parole possono tutto è l’emergere delle difficoltà tipiche dell’adolescenza a stringere forte la protagonista fino quasi a bloccarla. Ma proprio in quel momento di sconfitta e isolamento, la protagonista fa un incontro casuale che rimette in circolo nella sua storia personale energia, vitalità, sogni e possibilità attingendo da una cultura lontana.
Ci piace indagare l’adolescenza perché è la prima grande sfida che tutti incontriamo e che ci impegna in un vero cambiamento, quasi una rivoluzione. Raccontare l’adolescenza vuol dire tornare a vedere quali risorse introduciamo quando tutto si modifica attorno e dentro di noi.
Dato che non si finisce mai di cambiare, diciamo che io e Sualzo speriamo sempre di imparare qualcosa dai ragazzi e dalle ragazze!
Potete dire di vedere il fumetto come uno strumento di apprendimento utile, con del potenziale anche nei programmi scolastici?
Si sta iniziando a comprendere, anche a scuola, che non si tratta di letture di serie b, che fumetto non vuol dire soltanto intrattenimento, che il fumetto richiede delle competenze di lettura molto interessanti e profonde. Ma soprattutto che il fumetto è un potentissimo mezzo per raccontare qualsiasi cosa.
Che cosa vi ha colpito, sorpreso, in qualche modo segnato dell’esperienza con le studentesse e gli studenti? È stata anche d’ispirazione per il vostro lavoro da quel momento in poi?
Sempre! Sono fantastici lettori di fumetti e colgono tutti i riferimenti che nascondiamo tra le pagine, colmano in modo intelligenti i vuoti, le scene mute, ragionano sui flashback, ricostruiscono con attenzione. Insomma, ci diverte discutere con loro e dialogare con loro ci dà informazioni preziose per la direzione da prendere. Non vogliono essere trattati con superficialità, non vogliono che sia tutto spiegato, attraversano temi forti. Incontrarli è sempre incoraggiante.
Veniamo a alla vostra ultima graphic novel. Vorrei per prima cosa chiedervi qual è stata la genesi di questo racconto e come avete proceduto – a livello sinergico – nella stesura della sceneggiatura, per quanto riguarda Silvia, e nella realizzazione delle tavole, per la parte che riguarda Antonio.
SV: In realtà il nostro procedere dentro la storia è molto complesso e particolare. Non si tratta di due tempi, uno la sceneggiatura e l’altro la realizzazione delle tavole. La storia che scrivo diventa un fumetto attraversando fasi nelle quali le nostre voci si intrecciano. Dopo aver scritto la storia, passo a un trattamento con dialoghi, ambientazioni, atmosfere, a volte flussi di coscienza e i pensieri dei personaggi. A me interessa che Sualzo entri nella storia con me. In un secondo momento facciamo uno storyboard che diventa il nostro punto di partenza per… continuare a scrivere, rivedere, aggiungere, modificare. Ma come io sono stata libera di scrivere il mio soggetto, Sualzo è libero di fare il regista delle sue tavole. Si tratta di un lavoro che richiede una grande fiducia nell’altro, in entrambe le direzioni.
Per quanto riguarda invece la scelta del soggetto, diciamo che il cuore della storia viene prima da una componente personale. Nel libro la protagonista riceve un aiuto insperato dall’incontro con un maestro e un alfabeto, quello della lingua ebraica. Da giovanissima io stessa mi sono appassionata all’ebraico. Già scrivevo ed ero attratta da questa lingua, sentivo un’assonanza profonda con questa cultura che nel tempo ha sviluppato in modo particolarissimo la ricerca dei significati segreti delle parole fino dentro le particelle delle parole che sono le lettere. Come se da ogni lettera potesse nascere un mondo e come se ogni lettera potesse cambiare tutto. Nella cultura ebraica è la parola che dà origine al mondo.
Ho pensato di portare questa scoperta sulla strada di una ragazza che parla poco, un po’ perché non sa con chi parlare, un po’ perché ha perso la fiducia nelle parole. Riacquistare questa fiducia le darà la possibilità di creare il suo mondo ricominciando da capo.
Una domanda per Sualzo: come sei giunto a questa precisa composizione della tavola, a queste scelte cromatiche, anche alla decisione di connotare fisicamente Sara così come la vediamo? E, soprattutto, com’è arrivata l’idea della sovrapposizione delle lettere dell’alfabeto ebraico con l’anatomia di Sara?
Sualzo [S]: Volevo che i colori fossero espressivi anche dei cambiamenti che avvengono in Sara, che fosse naturale per il lettore entrare nei flashback come nei racconti delle leggende del Signor T. Da qualche tempo ho la fortuna di collaborare con Claudia Giuliani, esperta colorista, che ormai conosce il mio modo di sentire la storia e le sue atmosfere. Per Sara ho pensato di darle una fisicità e un atteggiamento che nelle prime tavole forse un po’ ci inganna. Sara gira da sola per la città di notte con il suo skate, potrebbe essere presa per un ragazzo dai gesti che compie come mettersi in pericolo o infrangere un divieto… Poi scopriamo altri lati di lei e le sue fragilità, le sue cicatrici.
L’idea di utilizzare le lettere ebraiche all’inizio del capitolo è venuta subito. Poi ho pensato di accompagnare queste forme con il corpo di Sara, quasi che le lettere, con le loro caratteristiche e i loro significati profondi, prendessero vita dentro di lei, trasformassero la sua storia. Quello di Sara è un alfabeto di lettere sparpagliate che a un certo punto si mettono in ordine e creano una parola. Quella che darà inizio al suo cambiamento.
Come siete arrivati, invece, alla pubblicazione con Il Castoro? Si è trattato di un lavoro su richiesta della casa editrice, oppure la scelta è ricaduta su di loro dopo aver vagliato altre opzioni?
Con la casa editrice il Castoro si è costruito nel tempo un rapporto di fiducia e amicizia che ci ha permesso di crescere.
La zona rossa (vincitore del premio Micheluzzi come miglior libro a fumetti per ragazzi nel 2018), poi 21 giorni alla fine del mondo (tradotto in Francia da Rue de Sevres e vincitore del Prix UNICEF de littérature jeunesse). Quando abbiamo scritto e immaginato Le parole possono tutto ci è sembrato quasi di chiudere una piccola trilogia dedicata al passaggio dell’adolescenza e al rapporto che ragazzi e ragazze hanno con le parole, con il silenzio, con le cose non dette e allo stesso tempo con la necessità di raccontarsi, chiedere, esprimere desideri e dare inizio al proprio mondo. Per noi è stato naturale proporre questa storia all’editore Il Castoro e tornare a lavorare con Loredana Baldinucci, editor esigente, attenta e sensibile. E poi Il Castoro è una bellissima squadra e sapevamo che avrebbe sostenuto al meglio un libro che poteva risultare… strano! Insomma, far incontrare l’adolescenza, un anziano maestro, un periodo di prova in una casa di risposo, l’alfabeto ebraico, un golem… è un po’ diverso che agganciassi a una moda del momento. La fiducia che hanno avuto nel progetto ci ha confermato che eravamo nel posto giusto.
John Keats scriveva che “le parole più belle son spesso quelle non dette, quelle che naufragano nei silenzi”. E l’adolescenza, l’età di Sara, la vostra protagonista, è l’età del silenzio, del non sapersi e del non saper esprimere pensieri ed emozioni. Ma a Sara viene offerto un mezzo di comunicazione, come al golem viene dato il soffio della vita: l’alfabeto ebraico che nelle tavole del fumetto diventa parola e figura.
Sicuramente alla base di questo racconto vi è una complessa ricerca stilistica e linguistica, e vorrei foste voi a spiegarci come e perché è nata la scelta dell’ebraico per raccontare la storia di Sara e quale processo di ricerca c’è stato alla base.
SV: Come dicevo, la scelta è stata dettata da un’esperienza personale ma ho desiderato spingermi un po’ oltre il dato autobiografico. Proprio per raccontare questa caratteristica dell’adolescenza, un momento in cui le parole “si ritirano”, sembrano farsi più rare, quasi scomparire in certi casi, ne Le parole possono tutto ho scelto di portare il golem, il primo elemento fantastico che appare nelle nostre storie.
Il golem è una figura leggendaria, una specie di Adamo, un uomo primordiale che sorge dall’argilla chiamato alla vita attraverso l’alfabeto ebraico, dal sapiente Rabbi Loew vissuto a Praga nel XVI secolo. Il termine golem ha a che fare con “embrione”. È un abbozzo, una forma indefinita, non compiuta. Nella leggenda il golem non ha parola. Ecco, nel nostro fumetto il golem è una presenza che cresce, come Sara, che è ancora un abbozzo, come Sara deve ancora decidere chi vuole essere. Ma soprattutto è qualcuno che non parla ma ascolta e diventa il luogo in cui mettere tutte quelle parole che sono in lei, che non riesce a dire. Queste parole crescono, come il golem che diventa ingombrante. Alla fine, dovrà trovare il modo di liberarle, lasciare andare.
Chi è, invece, il Signor T., non solo in funzione del racconto ma per voi due come autori e come persone? C’è o c’è stato un signor T. nelle vostre vite?
SV: Nel racconto il misterioso Signor T. è un maestro che accoglie Sara in un momento di difficoltà e l’accompagna per un tempo breve ma molto intenso. Sembra che non le insegni quasi nulla, Sara alla fine si accorge di conoscere solo qualche storia, qualche leggenda della tradizione ebraica e l’alfabeto. Ma è proprio questa la chiave. A Sara serviva un nuovo inizio e l’alfabeto rappresenta questa possibilità. In quello ebraico poi tutto questo è amplificato dalla concezione che vede la parola come origine, come un’energia che crea. Ma il Signor T., esaurito il suo compito, si ritira dalla vita di Sara. Forse rimane in una forma misteriosa e silenziosa nella figura del golem ma poi deve salutarla. Sara deve lasciare il Signor T. E prendere in mano il proprio inizio.
C’è un detto yiddish che recita: “Non rallegrarti quando un maestro ti sceglie, non addolorarti quando ti congeda”. La presenza del maestro è transitoria, il suo compito è farti procedere sulle tue gambe. Bisogna fare molta attenzione ai maestri che non vogliono che continuiamo la nostra strada da soli!
E sì, anche noi abbiamo avuto dei maestri. E per entrambi sono state figure che, senza forzare, con poche parole ma quasi “magiche” per l’intensità e la forza con cui ancora adesso le ricordiamo, ci hanno dato fiducia in quello che più amavamo: per me, scrivere, per Sualzo, raccontare disegnando.
Sara, nella sua complessità di giovane essere umano e nella complessità della sua esistenza, è in qualche modo la metafora di tutt3 noi. Ciascunǝ può ritrovare in lei un pezzo di sé stessǝ. Questo fumetto è una storia in qualche modo autobiografica anche per voi?
SV: Sì, soprattutto per quanto mi riguarda. L’adolescenza per me è stato un complicato intreccio di silenzio e parola che poi ha preso una sua direzione proprio attraverso la scrittura.
La vostra graphic novel ha ricevuto innumerevoli premi, lo dicevamo all’inizio. Com’è il vostro rapporto con questo genere di riconoscimento? Ritenete che i premi siano funzionali alla diffusione e alla notorietà di un’opera? Hanno ancora un senso, nella molteplicità di eventi, manifestazioni e premiazioni attualmente in essere?
SV: Per noi sono stati tutti riconoscimenti importanti perché sottolineavano una piccola novità: il prestigioso premio Laura Orvieto era la prima volta che veniva assegnato a una graphic novel, come ad esempio è successo con il premio Liber. In questo caso a scegliere è stata una giuria diffusa di esperti che potevano scegliere tra tutti i libri del 2021. Questo vuol dire generi diversi (albi illustrati, poesia, romanzi…) e diverse età di lettori. Per il premio Micheluzzi come migliore sceneggiatura il nostro libro era insieme ai libri per adulti e dunque non una categoria dedicata in modo specifico alla letteratura per ragazzi. Per questo dico che, al di là del piacere di ricevere belle notizie, questi ed altri riconoscimenti hanno fatto capire che anche grazie al nostro lavoro stava cambiando la sensibilità e l’attenzione verso il fumetto. E ne siamo stati molto felici perché era esattamente questa la profonda convinzione di Sualzo fin dall’inizio. Che il fumetto fosse un mezzo, un linguaggio capace di raccontare qualsiasi tipo di storia senza pensarlo come una “riduzione” della letteratura e senza alcuna etichetta.
Se non aveste realizzato questo libro insieme, con chi vi sarebbe piaciuto farlo? Silvia, chi avresti visto ai disegni se Sualzo non fosse stato disponibile? E, Sualzo, di chi avresti voluto disegnare la storia; o, meglio, da chi l’avresti immaginata scritta se non l’avesse firmata Silvia?
Abbiamo tanti colleghi e colleghe che ammiriamo e con i quali ci piacerebbe lavorare. Ma per come concepiamo la scrittura di un fumetto, questa storia in particolare non sarebbe potuta nascere diversamente! La storia infatti è cresciuta revisione dopo revisione con il contributo di entrambi tanto che oggi, per alcuni passaggi, non possiamo dire con certezza chi ha consigliato cosa. Ci aiuta condividere le scrivanie ma soprattutto le letture, una visione della realtà, delle storie, dell’adolescenza e… del fumetto.
Una domanda conclusiva, che mi piace fare a chiusura di ogni mia intervista, perché offre sempre degli spunti: cosa state leggendo in questo periodo, quali sono i vostri “libri (o fumetti) sul comodino”?
SV: Sul mio comodino c’è un libro che ho appena finito di leggere: Il fiume di Rumer Godden che racconta la crescita in un modo particolarmente intenso, e Un fantasma in gola della poetessa irlandese Doireann Ní Ghríofa che sto leggendo in questi giorni. Questa estate mi sono letta i fumetti dei Mumin!
Su quello di Sualzo c’è il bellissimo graphic novel di Paco Roca, Ritorno all’Eden e il romanzo Quando c’era Marnie di Joan Gale Robinson che ha ispirato il celebre film animato.
SILVIA VECCHINI
È autrice e poetessa. Ha pubblicato romanzi per bambini e ragazzi, raccolte di poesie, albi illustrati e graphic novel con alcune delle maggiori case editrici italiane. Fra le sue ultime pubblicazioni, la raccolta di poesie Acerbo sarai tu (Topipittori) e il romanzo in versi Prima che sia notte (Bompiani). Con Sualzo è autrice dei graphic novel Fiato sospeso (Tunué), La zona rossa (Premio Attilio Micheluzzi 2018 “Miglior libro a fumetti per ragazzi”) e 21 giorni alla fine del mondo (Prix Unicef de Littérature Jeunesse 2021), Le parole possono tutto (Premio Laura Orvieto 2021, Premio Liber “Miglior Libro 2021”, Premio Attilio Micheluzzi 2022 “Miglior sceneggiatura”), questi ultimi tre editi da Il Castoro e tutti tradotti all’estero. Progetta percorsi per le scuole, incontra bambini e ragazzi in biblioteca e nelle librerie per letture e laboratori di poesia.
ANTONIO VINCENTI, IN ARTE SUALZO
È autore di fumetti e illustratore e collabora con numerose case editrici italiane e straniere. Fra i suoi graphic novel, L’improvvisatore (Rizzoli-Lizard) e Fermo (Bao Publishing). Con Silvia Vecchini è autore di Fiato sospeso (Tunué), che ha vinto il Premio Boscarato e il Premio Orbil 2012 come miglior fumetto per bambini e ragazzi. Per Il Castoro ha pubblicato La zona rossa, che nel 2018 ha vinto il Premio Attilio Micheluzzi come “Miglior libro a fumetti per ragazzi”, 21 giorni alla fine del mondo e Le parole possono tutto (Premio Laura Orvieto 2021, Premio Liber “Miglior Libro 2021”, Premio Attilio Micheluzzi 2022 “Miglior sceneggiatura”), tutti e tre con Silvia Vecchini. Tra le sue collaborazioni, il progetto Disegni DiVersi con la trasmissione radiofonica di Radio2 Caterpillar.
Molfetta, 1981. Vive di cinema, teatro, libri, fumetti. Lavora, studia, scrive. Spesso viaggia sola.
Lo Spazio Bianco è una rivista online, amatoriale e indipendente, dedicata a informazione, critica e divulgazione del fumetto, attiva dal 2002. Le ragioni della collaborazione tra Kalporz e Lo Spazio Bianco puoi leggerle qui