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Nel momento in cui una succosa ristampa ampliata, che nella sua versione Super Deluxe di 11 LP e di 8 CD contiene, oltre all’album originale rimasterizzato, anche demo e versioni alternative dei brani poi finiti sul disco, bozze e tentativi che avrebbero condotto al risultato finale, un concerto integrale coevo e una intervista e una performance radiofoniche risalenti al settembre dell’anno precedente all’uscita del lavoro, ci ricorda che Yankee Foxtrot Hotel dei Wilco ha da pochi mesi compiuto venti (e uno) anni non è mai troppo tardi per ricordare come il gruppo arrivò, attraverso una serie di tappe e di ostacoli di certo non poco notevoli, a “dipingere il loro capolavoro” – per citare il titolo di una canzone di uno dei loro punti di riferimento, Bob Dylan – e per riflettere su quanto questo disco abbia inciso nella storia della canzone d’autore degli ultimo vent’anni circa.
Venti e uno anni, si diceva. Venti ufficialmente, nell’immaginario e nella convinzione dei più, nella cronologia “reale” che inchioda l’uscita del quarto lavoro in studio dei Wilco a quando la Nonesuch, nel marzo 2002, lo colloca fisicamente nei negozi di dischi. In realtà YHF ha appena spento ventuno candeline: l’album era stato diffuso in streaming sul web dalla band qualche mese prima, nel settembre 2001, e nessuna uscita è più ufficiale di quella decisa da chi quel lavoro l’ha composto e l’ha inciso. Celebriamo i ventun anni di Foxtrot, insomma, ma non dimentichiamo le questioni che, benché possano sembrare pure disquisizioni edotte per eruditi del rock – come, in primis, la data di uscita -, sono in realtà il primo passo per comprendere e per approfondire la gestazione di un disco che poteva non essere quello che invece è stato.
Quando i Wilco, con in mano già un buon pugno di canzoni incise per quello che sarebbe stato il nuovo disco, decidono, verso la fine del 2000, di riconsiderare la posizione del batterista Ken Coomer nel gruppo ritenendo più adatto e versatile al ruolo Glenn Kotche, che era entrato in contatto con Jeff Tweedy qualche mese prima per il tramite di Jim O’Rourke, con i tre che insieme avevano anche inciso alcune canzoni con il nome di Loose Fur, la strada che porta a YHF muta improvvisamente direzione. Il cambiamento alla batteria è appoggiato da tutto il resto del gruppo, i chitarristi Jay Bennett e Chris Brickley saranno gli audio engineers e il mix finale sarà firmato da Jim O’Rourke stesso, scelta verso cui Tweedy si diresse dopo aver ascoltato il suo mix di “I Am Trying to Break Your Heart”. L’opera a cui la band lavorava da mesi sembra finalmente pronta. Il sudore grondava da ogni fronte, soprattutto da quella del principale artefice del progetto, Tweedy, che cercava di rendere Foxtrot un’opera unitaria, tematicamente coerente al suo interno, con la musica e con la successione dei brani che avrebbero dovuto fornire un’ulteriore coesione al lavoro. Ciò scatenò anche un conflitto tra Tweedy e Bennett, in particolare per la transizione sonora tra “Ashes of the American Flags” e “Heavy Metal Drummer”, sulla quale i pareri dei due divergevano; non sarà una sorpresa la decisione di Tweedy di rimuovere Bennett dal gruppo dopo il completamento del disco.
Questa è – semplificata all’osso, perché per affrontarla di petto come uno studioso farebbe occorrerebbe scrivere molto di più; potrà essere di aiuto a tal proposito la visione del film I Am Trying to Break Your Heart: A Film About Wilco – la storia della composizione, della registrazione e del mixing di Yankee Hotel Foxtrot, considerate anche le mutazioni interne alla band avvenute durante la sua incisione e gli scossoni in essa verificatisi prima e dopo la sua uscita. Un discorso a parte andrà fatto sulla sua pubblicazione, prevista inizialmente per l’11 settembre 2001, quando gli USA vivevano uno dei giorni più drammatici della loro storia e uscivano due capolavori musicali, “Love and Theft” di Bob Dylan e The Blueprint di Jay Z. Le cose, come tutti sanno, andarono diversamente. Nel giugno 2001 la Reprise Records, posseduta dalla Warner, aveva deciso di accantonare l’uscita del disco perché si aspettava un singolo trainante, da classifica, che a detta dell’etichetta il disco non conteneva. Dopo una serie di trattative serrata la band ottenne (gratis) i diritti per la sua stessa opera – sì, andò così – e la diffuse in streaming il 18 settembre. Ciò che allora poteva sembrare un suicidio annunciato dal punto di vista del marketing – chi avrebbe comprato il disco fisico se poteva ascoltarlo interamente online? – si rivelò scelta vincente oltre che l’unica strada per la band di far ascoltare al più presto la sua straordinaria opera al pubblico. Successivamente, in novembre, i Wilco firmarono un contratto con la Nonesuch, un’altra etichetta in mano alla Warner, che pubblicò “ufficialmente” il disco nell’aprile 2002. La Warner aveva, di fatto, pagato due volte i diritti del disco, regalandoli ai Wilco qualche mese prima e riacquistandoli adesso. Giustizia è fatta, direbbe qualcuno.
Del valore del disco è quasi superfluo discutere. Foxtrot è, alla fine, il disco dei se. Cosa sarebbe successo se i vari fattori che hanno portato a esso non si fossero allineati in quel modo preciso? Se le decisioni dei suoi dei ex machina non fossero state quelle? Se la Τύχη avesse posto ostacoli differenti di fronte ai membri del gruppo? Nessuno può sapere cosa sarebbe successo. La forma definitiva di YHF è la più grande risposta che i Wilco potessero offrire al pubblico dopo lo splendido Summerteeth, la cui ristampa deluxe uscita due anni fa è altrettanto fondamentale per qualsiasi appassionato della band. Per un gruppo è difficile orientarsi dopo aver dato vita a un disco quasi perfetto come quello, un’esplosione pop rock senza eguali nel panorama americano di allora, un viaggio cantautorale intimistico ed esuberante insieme che sterzava di colpo dal percorso che i Wilco avevano intrapreso nei loro primi due dischi, altrettanto brillanti. YHF ha saputo dare un nuovo sapore al folk rock statunitense nonché una nuova direzione alla canzone d’autore all’alba del Terzo Millennio, intrecciando l’Americana al pop e il country al rock come solo i Wilco avrebbero potuto fare a quel tempo. Nel fiume magmatico che è, Foxtrot si fa carico delle luci e delle ombre che il leader del gruppo si porta appresso da sempre. La sua struttura finale splendidamente organizzata “tradisce” tutte le possibili strade che il disco avrebbe potuto intraprendere e che è compito di questo gigantesco box set esplorare.
Anche l’organizzazione delle edizioni deluxe è l’ennesima prova di quanto i Wilco non lascino mai niente al caso. Ribattezzando ogni gruppo di demo e di outtake con un nome preciso la band ci regala viaggi nello spazio e nel tempo di rara intensità. Con American Aquarium, ancora intriso delle zuccherose atmosfere di Summerteeth, percepiamo il profumo di un’estate in fieri che entra timida nel nostro giardino. Lonely in the Deep End è lo spioncino attraverso cui osservare ciò a cui non avremmo mai pensato di assistere, una serie di tracce e di indizi disseminati sulla strada che pian piano ha portato fino alle due splendide torri, che si affacciano sul Chicago River, che troneggiano sulla copertina dell’album. The Unified Theory of Everything ha un andamento più tagliente e roccioso, se vogliamo più grezzo, che dà ai pezzi un sapore assolutamente rinnovato. C’è anche Here Comes Everybody, la seconda versione del lavoro, più ritmata e sanguigna di quella definitiva, straniante ma altrettanto fascinosa. Chissà cosa sarebbe successo – per continuare coi se – qualora Tweedy e soci avessero deciso di pubblicare una di queste versioni. È probabile che avremmo gridato ugualmente al capolavoro.
La capacità di YHF di fissare in vitro un periodo storico e le sue intrinseche contraddizioni è palpabile ovunque nel suo srotolarsi di fronte a noi, papiro sonoro che nasconde tra le righe un rituale iniziatico. Con Bennett che, prima che fosse messo ai margini del gruppo, ebbe un ruolo più ampio rispetto ai lavori precedenti – ha coscritto lui insieme a Tweedy le musiche di quasi tutto il disco – e con la partecipazione di O’Rourke e di Kotche i Wilco stavano diventando qualcosa di altro. Ciò che andavano costruendo, però, si fissava solido sulle fondamenta preesistenti, un’energia cosmica che guidava la nave dove nulla si crea e nulla si distrugge e il risultato finale non può mai mentire. “You have to learn how to die”, canta Tweedy nella tragicamente profetica “War on War” a un paese che si sarebbe presto ritrovato nuovamente in guerra. Anche i momenti che provocano un cinico sorriso nascondono cupi presagi o ambiguità irrisolte, caratteristiche di una band che ha sempre deciso di fare i conti coi suoi demoni alla luce del sole. “Phone my family, tell them I’m lost / on the sidewalk / and, no, it’s not OK”, recita “Kamera”, mentre nell’evocativa “Ashes of the American Flags” Tweedy si domanda sperduto “Speaking of tomorrow, how will it ever come?”. La divertente e divertita “Jesus, Etc.” si risolve in un pianto collettivo e catartico non meno di quanto non facciano le confessioni maldestre della drammatica “Poor Places”. Foxtrot è un puzzle non facile da risolvere: ogni pedina sta bene dov’è e nessun altro ordine potrebbe essere altrettanto convincente.
A completare il box set ci sono alcune performance e un’intervista radiofoniche e il concerto integrale che il gruppo tenne a St. Louis, Missouri, il 23 luglio 2002, in un momento particolarmente magico per il gruppo. I Wilco sono una delle rock band statunitensi più interessanti e avvincenti sul palco e questa performance conferma perfettamente la vulgata. La personale declinazione che i Wilco hanno abbracciato di rock, di country, di pop e del concetto stesso di canzone d’autore ha modellato un’intera generazione di gruppi e di artisti che sono arrivati dopo o durante Being There, Summerteeth e YHF. Chi allora già c’era poté saggiare in itinere questa maturazione. La maestria dei Wilco di ingaggiare una coinvolgente sfida coi propri modelli – gareggiandovi, celebrandoli, ribellandosi a essi ogni qualvolta volessero – raggiunge in YHF la sua ἀκμή. Il rapporto che Apollonio Rodio tesse nei confronti dei poemi omerici dal punto di vista della materia trattata, della lingua, della sintassi e della metrica è simile a quello che i Wilco hanno condotto nei confronti dei loro modelli in YHF, superstiti di una tradizione che rischiava di non avere più epigoni sufficientemente coraggiosi e ambiziosi. Non è stato facile, certo, e l’ambizione e il coraggio hanno portato con sé ostacoli e scelte difficili, sempre inevitabili per chi sceglie – per citare un altro poeta greco ellenistico – la strada meno battuta. Così Tweedy e soci, postmoderni senza saperlo e volerlo, consegnarono al mondo un’opera eccelsa, che è ancora oggi fresca e perfetta ventun anni dopo la sua pubblicazione.