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Avevamo lasciato Shabaka Hutchings poche settimane fa, impegnato nelle date conclusive del tour – e probabilmente della storia – di una delle sue più belle creazioni: i Sons of Kemet. Ma il prolifico musicista e compositore londinese, com’è ormai appurato, non conosce pause e così, chiusa un’esperienza, è immediatamente ripartito con Dan “Danalogue” Leaver e Max “Betamax” Hallet, rispettivamente tastierista e batterista dei Comet Is Coming, band nella quale ricopre l’umile ruolo di Re. Al tramonto dell’estate, infatti, il trio ha registrato in una manciata di giorni “Hyper-Dimensional Expansion Beam”, terzo capitolo discografico a tre anni da “Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery”.
“Hyper-Dimensional Expansion Beam” si inserisce pienamente nel solco di quell’esplorazione (del jazz) che il trio conduce autorevolmente dal 2016, quando debuttò con un ambizioso lavoro imperniato intorno al sax tenore di Re Shabaka e ricamato dai due fedeli compagni, che proiettavano l’ascoltatore in una dimensione cosmica, legandosi a soluzioni care allo space rock e, in maniera anche più visibile, alle declinazioni più moderne della psichedelia. Con il successivo “Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery”, i Comet Is Coming sceglievano di aumentare i giri del motore, senza eccessiva frenesia: accanto alle sempre riconoscibili tracce dell’influenza del maestro e guida spirituale Sun Ra, il trio cominciava ad ammiccare al dancefloor con qualche soluzione più rapida in studio e, in modo particolare, in sede live. Quel movimento – lento, paradossalmente – verso un paradigma artistico e concettuale nuovo, o forse solo un po’ diverso, trova la sua concretizzazione definitiva proprio nel 2022, con il sound meno terrestre e più elettronico di sempre.
Abbandonata l’idea di un’opener introduttiva, “Hyper-Dimensional Expansion Beam” condensa la sua fase preparatoria in una trentina di secondi, prima di cominciare un’opera di martellamento che conduce verso una dimensione più techno che jazz, con le spirali disegnate da Re Shabaka incasellate in un incedere che trasmette un nuovo senso di frenesia, stavolta marcato (“Code”). Ma se episodi simili non erano mancati anche nei due lavori precedenti, man mano che l’ascolto procede si comprende quanto questo progressivo riassestamento sia una sorta di nuova normalità nell’universo sonoro del trio. È come se il decollo fosse definitivamente avvenuto e oggi, all’improvviso, ci trovassimo a fluttuare a distanza ravvicinata da, se non dentro, qualcosa che è da sempre appartenuto alla band, quantomeno in termini estetici: altri mondi, altre dimensioni, un vago e intangibile concetto di futuro. C’è meno spazio, oggi, fra il sound dei Comet Is Coming e l’orizzonte fusion tra jazz-elettronica: da coesistenza a (quasi) mera commistione, attraverso momenti dal retrogusto prog e altri da jam, comunque in grado di raccontare l’estro e l’affiatamento dei tre musicisti.
Gli esempi più limpidi di questa urgenza nel percorso creativo di Re Shabaka e soci sono le trame fitte di “Pyramids”, una sorta di afro-house acidissima in cui Danalogue acquisisce centralità a scapito proprio del sax di Hutchings, solitamente fulcro del discorso, e “Atomic Wave Dance”, che risponde a dinamiche di equilibrio più simili al passato, ma che insiste su furiosi disegni di sax adagiati su tappeti di synth limacciosi e su un drumming che marca il climax e spinge in direzione rave. Anche nei momenti più vicini ai primi due dischi, comunque, i Comet Is Coming appaiono più distanti del solito da una dimensione meramente terrena (“Lucid Dreamer”), fino a dichiararlo quasi solennemente in una estatica e spirituale “Angel of Darkness” che, per le sue straordinarie doti evocative, diventa uno dei principali punti di contatto con Sun Ra in un’intera discografia, e a descrivere uno stato di totale abbandono nella conclusiva “Mystik”.
Con “Hyper-Dimensional Expansion Beam”, i Comet Is Coming scelgono di portare quasi all’estremo alcune intuizioni e alcune bozze sospese qua e là nei lavori precedenti. L’approdo finale può disorientare: se da un lato la sensazione è quella di un disco che non aggiunge alcun elemento di novità sostanziale rispetto al passato, dall’altro si avverte un senso di claustrofobia nel ritrovarsi all’interno di uno scenario che prima era solo accennato e che, per questo, fatica a essere completamente familiare. Per certi versi, si tratta di un album più spigoloso e meno immediato del passato, che trascende come mai prima i confini dell’universo jazz e che alimenta curiosità e interrogativi per quella che potrebbe essere la prossima tappa del viaggio. Più che definire una classifica della produzione del trio, allora, conta pensarla, appunto, come il percorso di una cometa, ma in senso opposto e con la possibilità concreta che, per la moderna storia del jazz, quella scia sia imperitura.
76/100
(Piergiuseppe Lippolis)