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Don’t get emotional, that ain’t like you.
Sono le prime parole di “There’d Better Be a Mirrorball”, il capolavoro che apre “The Car”, settimo album del quartetto di Sheffield.
Non essere emotivo, non è da te: come si fa a non essere emotivi, o a non diventarlo, quando si ascolta un disco così?
Come si fa a prendere una distanza vagamente critica, quando in ogni momento del giorno nella testa rimbombano “I Ain’t Quite Where I Think I Am”, “Sculptures of Anything Goes”, “Jet Skis on the Moat”, “Body Paint”, “The Car”, “Big Ideas”, “Hello You”, “Mr Schwartz, Perfect Sense” e “There’d Better Be a Mirrorball”?
Come si fa?
Sono più di 10 giorni che non faccio che ascoltare questo pugno di canzoni e quando non le ascolto, appunto, rimbombano, ne sento l’eco di continuo e sentendone l’eco mi accorgo di andare loro incontro: tornando a casa accelero il passo, apro la porta e mi fiondo verso lo stereo, lo accendo nello stesso modo in cui si può aprire la dispensa, dove sai che ti aspetta la fragranza del pane fresco, quel tipo di fragranza della quale non si può fare a meno, in nessun tempo della vita.
“The Car” è uscito lo scorso 21 ottobre, ma in tutta franchezza emotiva, è già un classico: me lo immagino, tra 40 anni, in qualche lista di recensori bene informati e dall’orecchio fino.
Di sicuro, per quello che hanno combinato nei loro 15 anni e più di carriera, gli Arctic Monkeys si sono già scavati la loro meritata nicchia in quella storia della musica che inizia negli anni ’50 del secolo scorso e che chiamiamo ancora rock.
Il loro primo album del 2006, “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, fece un botto clamoroso, una scarica adrenalinica di post-punk e post-Britpop, riff indimenticabili, storie di disco, ragazze, pub, amicizie pericolose narrate dall’accento South-Yorkshire di Alex Turner, voce, chitarra e mente del gruppo.
Il successo in Gran Bretagna fu immenso, primo posto in classifica, primo posto peraltro al quale saranno abbonati tutti i loro album successivi e anche i due del progetto parallelo di Turner insieme a Miles Kane dei Rascals, The Last Shadow Puppets.
C’era forse un messaggio in quel primo album, nel titolo: qualunque cosa la gente dica che io sono, è ciò che non sono. E in effetti il percorso artistico si è fatto sempre più stratificato e meticcio, il ritmo è via via divenuto meno serrato, l’interesse di Turner verso il beat anglo-francese, le colonne sonore, i crooner, tutta quell’estetica che ruotava intorno agli anni ’60 e ’70 – anni francamente d’oro per qualità e freschezza (il pane!) di proposte – ha influenzato le sue scelte stilistiche, dal beat in purezza di “Suck It and See” al rock quasi alla Led Zeppelin che flirta col rap di “AM”, l’album del 2013 che ha dato loro fama planetaria e che da allora non è mai uscito dalla top 100 britannica, un po’ come successe a “Dark Side of The Moon”, tanto per volare bassi.
Potevano forse continuare su quella strada anche commercialmente redditizia?
Naturalmente no, e infatti nel 2018 esce “Tranquility Base Hotel & Casino”, un album che spiazza molti fan, con la sua lounge futurista, un algido distacco in bianco e nero dal predecessore e da tutto quello fatto prima.
“Tranquility Base Hotel & Casino” è un disco che richiede ascolti, ma poi ti ripaga. Soprattutto, funge da trampolino di lancio per arrivare qui, a questo “The Car”.
Se “TBH&C” è una coraggiosa cesura con il passato, “The Car” è la macchina che prendono (e prendiamo) per un viaggio senza meta, come quando si va in Toscana o in Provenza, ti siedi, innesti la marcia, prendi una strada, ne prendi un’altra, qualunque direzione sarà, sarà una meraviglia.
C’è qualcosa di profondamente artistico in un disco così e una notevole consapevolezza dei propri mezzi espressivi: il suono è rotondo, levigato, si percepisce il lavoro intorno ai pezzi, un lavoro cesellato di stampo artigianale, dove ogni singola nota di basso è distillata e immessa in un contenitore pieno di archi, un’attenzione maniacale che al sottoscritto ricorda tanto l’”Histoire de Melody Nelson”, capolavoro di Serge Gainsbourg, uno che Turner deve avere ruminato e ben digerito, in tutti questi anni.
Forse è proprio l’intenzione del leader degli AM, portarci in giro con quella macchina a visitare un suo pantheon privato, dove spiccano, oltre al citato Gainsbourg, Burt Bacharach ed Elvis Costello, Beach Boys, John Barry, Ennio Morricone, David Axelrod, Marvin Gaye, Isaac Hayes, Curtis Mayfield, Steely Dan, David Bowie, Style Council, crooner un po’ dimenticati come il grande Matt Monro, per stare sul classico, o il crooning teso e oscuro di Scott Walker, che aleggia in modo costante, specie nei geniali arrangiamenti. E come per ogni gruppo inglese, si fanno i conti con i Beatles, con la loro immensa e gravosa eredità e i conti tornano, specialmente nella splendida “Body Paint”, che è un misto geniale tra “Sexy Sadie” e “While My Guitar Gently Weeps” e nella vertiginosa “Mr Schwartz”, una malinconica ballata degna del catalogo lennoniano più intimista.
“The Car” sembra un disco del 1971, ma allo stesso tempo è di una modernità abbagliante. Grandissimi numi tutelari e una visionarietà e saldezza compositiva completamente genuina, quella di Turner, che alla fine del viaggio, all’ultima nota di “Perfect Sense”, è come inserisse lui stesso e la band proprio tra quei numi.
Peccato di superbia? Non credo, ma se così fosse, pazienza, Turner avrà pur qualche difetto: l’importante è risalire in macchina, ripartire per un altro viaggio, un altro giro e un altro ancora, fidarsi del conducente, la bellezza arriva dietro a una morbida curva, come una promessa mantenuta.
90/100
(Max Cavassa)