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Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.
Questo è l’ultimo episodio
#9
Andavano avanti nel discutere dei loro affari, Sabrina e Marcel.
Mi estraniai, sorretto da una postura antalgica che sdegnava gli altri e mi accontentava dentro. Lo vedevo fare da mio padre quando, sterzando, girava la testa. Riportava gli occhi sugli specchietti retrovisori spostando l’attenzione dai nostri discorsi al traffico, come se delle automobili in coda potessero legittimargli un ascolto meno attento. Io e mia madre cercavamo poche altre parole, fino a colludere con una complicità poco spontanea che ci lasciava uniti a corta distanza, in silenzio.
Abituato come sono a guadagnare tempo, mi distacco da una persona quando questa è pronta, per convincermi che sia stato io a disaffezionarmene. Successe anche con Pauline. E in accordo con la certezza comune che, come ogni legame, si sarebbe esaurito anche il nostro, a me e Sabrina rimaneva da difendere l’illusione della perfetta aderenza all’altro, secondo la quale il farsi strada insieme basterebbe per rendere somiglianti due persone. Ma essendo mutevole persino la somiglianza nei confronti di se stessi, è inevitabile che quella strada si sazi di ricordi svuotandosi di contenuti; arriva la fame d’aria. E ci sente come quei miserabili che si fermano a guardare più del dovuto la stessa mela marcia: sospesi.
Camminavo con loro standomene sul lato, guardai Sabrina come se fosse l’ultima volta. E con un passo che dava fretta a quell’altro, li salutai.
Sorvegliai la rabbia confidando nella sua natura transitoria, masticandomi le guance internamente, una parete per volta. Iniziai a passeggiare al battere di una pioggia affilata che si metteva al posto del non espresso e, per completarmi, mi bagnava.
Uscendo dal sentiero, imboccai Rue des Jardins, una di quelle vie dove i limiti di velocità si abbassano e gli odori vanno a nascondersi nel disordine di un mercato coperto. Mai visto nessuno darsi un appuntamento lì. La gente ci passa in mezzo per raggiungere le piazze, i motori si accostano alle vetrine che segnano il confine tra ciò che resta immobile e ciò che transita, in una via.
Proseguivo immerso in uno stato di esclusione, dirigendomi verso la boulangerie, quando sentii il sangue stappare una delle due narici. Andai con le dita appena prima della punta del naso; lo strinsi. Castrai il sintomo, appurandone un aspetto curioso: la puntualità nel restituire al mio corpo un aspetto vitale. E quando parlo di operosità come un’opportunità per uscire dal sentirsi morti, penso alle occasioni che, troppo spesso, mi hanno visto lasciarle scappare.
Fuori dai negozi, i dischi, sono esposti di faccia come in una libreria per bambini, incolonnati come le fotoricordo in quelle pellicole trasparenti che si appendono sui muri in verticale. Se decidi di entrare, ti tocca fare le cose come le fanno i grandi, e cercare a due mani quel che ti serve. “Death Spells” non occupava di certo un posto di rilievo dietro a quel vetro, non era né al centro né su un lato. Ho sempre pensato che fosse un disco perfetto nella sua Gestalt, e che gli Holy Fawn proponessero delle esperienze così sincretiche, per abbuiare ogni via d’accesso ai dettagli.
Mi sembrava di sentire la voce di Ryan Osterman anche nelle tracce mute, e qualsiasi percezione stessi provando ad incasellare, lui l’annebbiava. Non era post-rock né doomgaze né emocore. Era addentrarsi in un bosco fitto e prendersi rami secchi negli occhi aperti, era la consapevolezza disperata di esserci entrati. Da Dark Stone a Sleep Tongue nessuna luce puntava all’altezza della strada. Quel disco si attaccava ai miei pensieri come fa la ruggine sul ferro esposto all’aria quando si lascia ossidare. L’unico modo che avevo per uscire da lì era restarci in mezzo. Invece rimasi a guardare più del dovuto, passai oltre, e non lo comprai.
Avevo abbandonato la boulangerie da mesi, non avendo altre energie se non quelle da dedicare alla trepidazione che annodava le notti e le mattine.
Le serrande erano gelide. Aprii. Il pavimento era lustro, il banco di lavoro vuoto di madeleines. La mia bottega non profumava di niente. Squillò il telefono, era Piere.
‒ Marcel l’ha spinta e… Jean-Michel? – Riagganciai, tornai brusco al silenzio.
Rividi quel che rimaneva di me stesso come in un sogno da sveglio. Il fiume ce l’avevo di fronte, non me ne stavo sul lato. Mi raffigurai Marcel passarmi oltre, io mi assentavo per rimanere opaco, sentivo freddo. Rividi Sabrina precipitare. E per impedirlo, non facevo niente.
(Antonia Salcuni)
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #2 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #3 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #4 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #5 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #6 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #7 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #8 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta