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Dehd, mercoledì 2 Novembre, Circolo Magnolia Milano
“Dal vivo sono tutta un’altra cosa” si sentiva vociferare qualche settimana fa al concerto milanese delle Wet Leg. Capita ancora di venire sorpresi dall’esibizione dal vivo di una band che su disco suona più morbida, più facile, più pop, insomma. In realtà pop lo sono anche i Dehd, e loro, ancora più che le Wet Leg, sono la definizione vivente di una live band. Fortunato chi, in questo autunno milanese stracolmo di concerti, ha deciso di fare un salto al Magnolia nella serata in cui il circolo Arci ha ospitato il gruppo di Chicago. E onore al Magnolia stesso che, a una settimana dallo splendido concerto per pochi intimi di M.Ward, continua a proporre in cartellone una selezione qualitativamente altissima, nonostante la risposta del pubblico a tratti discontinua.
Ma venendo ai Dehd, non si può che registrare con entusiasmo ed un filo di sorpresa, per lo meno da parte di chi non era un fan sfegatato del trio statunitense (ed in sala ce ne erano parecchi), la potenza fragorosa dei quarantacinque tiratissimi minuti della loro esibizione. Anche se parlare di potenza è riduttivo, in quanto siamo di fronte a un complesso che riesce a trasmettere molto di più, senza per altro abbandonare una forma canzone squisitamente pop-rock, che raramente oltrepassa i tre minuti di durata.
Se si va a sbirciare le recensioni, quasi sempre entusiastiche, dei lavori della band, si trovano le definizioni più varie: chi parla di post-punk, chi di garage, surf rock o power pop. Dopo aver assistito ad un loro live le descrizioni diventano irrilevanti. Emily Kempf, al basso e alla voce, è una frontgirl magnetica, dotata di una gravitas vocale immensa, capace di comunicare quasi in simultanea uno spettro di emozioni che va dalla malinconia al disincanto, fino alla più sfrenata voglia di vivere. L’istrionico Jason Bralla, chitarra e voce, non smette per un secondo di ballare, mentre si esibisce in riff taglienti e mai scontati; Eric McGrady, a differenza dei suoi due compagni, non alza mai la testa dal suo set di percussioni (“ha un po’ di jet lag”, spiega la Kemp ridendo), composto da due tamburi “veri” e un pad elettronico, ma fornisce una spinta ritmica solida e fantasiosa.
La formula che i tre riescono a confezionare si basa su cambi di ritmo improvvisi, controtempi, stop and go, melodie vocali a volte cariche di un pathos quasi emo, a tratti felicemente svogliate, tanto da far venire in mente il migliore low-fi rock degli anni ’90. Ma, come si diceva prima, inutile fare paragoni, i Dehd vivono di luce propria, e se nel futuro riusciranno a imbroccare qualche hit, ne sentiremo parlare a lungo. Ma sia chiaro: noi di Kalporz li seguiremo comunque.
Foto di Alexa Viscious
Foto in Home di Lyndon French